
Aung San Suu Kyi, un'eroina non violenta o responsabile di genocidio?
Dal Premio Nobel per la Pace del 1991 all'accusa di genocidio: ripercorriamo la storia della leader politica di Myanmar

Dal Premio Nobel per la Pace del 1991 all'accusa di genocidio: ripercorriamo la storia della leader politica di Myanmar
16 giugno 2012: a distanza di oltre vent’anni dal Nobel per la Pace, la leader politica birmana Aung San Suu Kyi poté finalmente pronunciare a Oslo il discorso di accettazione del premio, dopo due decenni passati tra arresti domiciliari e libertà vigilata per decisione del regime militare.
Iniziava così un nuovo periodo per il suo paese e soprattutto per lei, finalmente libera di essere eletta, viaggiare e ricevere onorificenze in tutto il mondo. “È per via dei recenti cambiamenti nel mio paese che io sono con voi oggi”, disse, ringraziando gli “amanti della libertà e della giustizia” che avevano contribuito a far conoscere la sua storia. E si augurò una nuova unità per la Repubblica dell’Unione del Myanmar.
Il Myanmar è un paese di molte nazionalità etniche e la fede nel suo futuro può essere fondata solo su un vero spirito di unione. Dal momento che abbiamo raggiunto l’indipendenza nel 1948, non c’è mai stato un momento in cui si sarebbe potuto affermare che tutto il paese era in pace. […] Ci auguriamo che gli accordi di cessate il fuoco porteranno a soluzioni politiche fondate sulle aspirazioni dei popoli, e sullo spirito di unità.
Tra le oltre cento etnie presenti in Myanmar, una delle nazioni più povere del Sudest asiatico, confinante con India, Bangladesh, Cina, Laos e Thailandia, c’è anche quella dei rohingya.
In quella serata di gala del 2012, che portò poi Aung San Suu Kyi a una lunga serie di visite ufficiali in Europa e non solo, nessun poteva immaginare che proprio quella piccola minoranza etnica avrebbe rappresentato una macchia indelebile nella vita politica della leader birmana.
Come raccontato da Limes, i rohingya sono stati definiti dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres “uno dei popoli più discriminati del mondo, se non il più discriminato”. Sono circa un milione e mezzo di persone scappate negli ultimi anni dallo stato di Rakhine in Myanmar verso il Bangladesh, la Thailandia e la Malaysia.
Musulmani sunniti, i rohingya non trovano pace ormai da decenni, ma l’escalation di violenza e odio ha raggiunto l’apice nel 2017, in seguito alle violenze subite da parte dell’esercito birmano. Tra le prime a condannare il dramma di questo popolo è stata proprio un altro Premio Nobel per la Pace, la giovane pakistana Malala Yousafzai.
In quel momento qualcosa è cambiato nell’immagine pubblica di Aung San Suu Kyi, dal 2016 Consigliere di Stato, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente di Myanmar. Da leader non violenta e faro dei diritti umani è diventata osservatrice indifferente del genocidio dei rohingya.
I dati di Save the Children raccontano una situazione drammatica, soprattutto per le donne e i bambini. Il “popolo che nessuno vuole” vive in baraccopoli improvvisate lungo i confini, dove dormono all’aperto e in condizioni di povertà estrema e di malnutrizione.
In alcuni casi privata delle onorificenze assegnatele in passato e con un numero ormai esiguo di supporter internazionali, lo scorso dicembre Aung San Suu Kyi ha difeso il suo paese dalle accuse di genocidio di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’ONU, all’Aia, nei Paesi Bassi.
Nel suo discorso, lungo venti minuti, ha ammesso le violenze, parlando però di “un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine”. Ha giudicato la reazione dell’esercito “sproporzionata”, ma ha anche detto che è stata una risposta agli attacchi dei ribelli rohingya, gli ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army).
Il Guardian ha pubblicato un fact-checking di quanto dichiarato dalla leader birmana, che ha respinto con forza l’accusa di genocidio, spiegando di aver affidato a una commissione internazionale, l’ICOE, il compito di indagare sui fatti.
Secondo le Nazioni Unite, però, tale commissione non può essere considerata indipendente e imparziale. Inoltre, il governo birmano continua a negare l’accesso a Rakhine a qualsiasi altro ufficiale internazionale che possa dare un vero giudizio esterno sulla vicenda.
Sebbene sia vero quanto affermato sulla volontà di negoziare con il Bangladesh per il ritorno volontario dei rohingya, finora sono pochi i rifugiati che hanno scelto di tornare in Myanmar, dove non potrebbero godere della piena cittadinanza, dei diritti di studio, lavoro e viaggio e senza la possibilità di poter entrare nuovamente in possesso delle proprietà confiscate.
Tutte queste considerazione hanno spinto l’opinione pubblica a chiedersi quale sia veramente il ruolo di Aung San Suu Kyi in Myanmar. A oltre settant’anni, appare sempre più fragile e impotente, al comando di un paese che non sembra poter controllare veramente. Rimane solo un pallido ricordo di quegli anni in cui tutto il mondo guardava a lei come a una speranza di pace.
Nata a Yangon il 19 giugno del 1945, Aung San Suu Kyi è figlia dell’eroe dell’indipendenza del Myanmar, il generale Aung San. Suo padre viene assassinato durante il periodo di transizione nel luglio 1947, appena sei mesi prima dell’indipendenza, quando lei ha solo due anni.
Nel 1960 Aung San Suu Kyi si trasferisce in India con sua madre Daw Khin Kyi, nominata ambasciatrice del Myanmar a Delhi. Quattro anni dopo si iscrive all’Università di Oxford nel Regno Unito, dove studia filosofia, politica ed economia. Lì incontra il suo futuro marito, l’accademico Michael Aris.
Dopo aver vissuto e lavorato in Giappone e Bhutan, si stabilisce con il marito nel Regno Unito per crescere i loro due figli, Alexander e Kim, ma continua a pensare al suo paese. Tornata a Yangon nel 1988 per prendersi cura della madre, gravemente malata, si ritrova nel mezzo di grandi sconvolgimenti politici. Migliaia di studenti, impiegati e monaci scendono in strada invocando la democrazia e lei decide quindi di entrare in politica, ispirandosi alla politica della non violenza di Martin Luther King e Gandhi.
Le manifestazioni vengono brutalmente represse dall’esercito, che prende il potere con un colpo di stato nel settembre dello stesso anno. Nel 1889 Aung San Suu Kyi viene messa agli arresti domiciliari.
Nel 1990 il governo militare apre alle elezioni nazionali, che vedono trionfare Aung San Suu Kyi, a cui però viene impedito di prendere il potere. Nel 1991 le viene assegnato il Premio Nobel per la Pace, ma lei non può lasciare il suo paese per andare a ritirarlo.
Gli arresti domiciliari vengono revocati nel 1995, ma la vera liberazione arriva solo molti anni dopo, il 13 novembre del 2010.
Finalmente libera di viaggiare ed essere eletta, l’11 novembre del 2015 il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ottiene un risultato eccezionale alle prime elezioni libere dal colpo di Stato del 1962.
Dal 30 marzo 2016 Aung San Suu Kyi ricopre diversi ruoli istituzionali di rilievo, tra cui quello di Consigliere di Stato, equiparabile al ruolo di un Primo Ministro.
Nel dicembre del 2019 Aung San Suu Kyi si presenta davanti alla Corte penale internazionale per difendere il Myanmar dalle accuse di genocidio verso i Rohingya, mosse dall’ONU, che lei rifiuta.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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