Nel catalogo Netflix troviamo sempre delle storie interessanti, attente all’universo femminile, al mondo arcobaleno, alla body positivity e all’inclusività, per cui ci siamo stupite un po’ quando siamo incappate nel film 365 giorni.

Si tratta infatti di una storia stereotipata sulla falsa riga di 50 Sfumature, ma già da uno dei primi dialoghi, tra il protagonista e suo padre, intenti a spiare una ragazza con il binocolo, è chiara l’immagine delle donne che il film proporrà:

Padre: Eh, figlio mio, devi stare attento. Le belle donne sono il paradiso degli occhi e l’inferno dell’anima.
Figlio: E il purgatorio per il portafoglio.

La storia parla di Massimo, un mafioso siciliano: durante una trattativa, il padre viene ucciso e Massimo ferito. Mentre è incosciente, Massimo ha un’esperienza di pre-morte e vede una donna (la stessa che stava spiando poco prima) e ne diventa ossessionato, al punto da mettersi alla sua ricerca, finché non la trova.

La donna in questione si chiama Laura, è polacca ed è una manager realizzata. Durante una vacanza in Sicilia con il compagno con cui non va troppo d’accordo, viene rapita da Massimo, che le impone un ultimatum: restare con lui per un anno intero (i 365 giorni del titolo). Lui non la toccherà, ma lei si dovrà innamorare di lui.

Che lui non la tocchi è presto chiaro come non sia una clausola troppo rigida, dato che ci saranno sfioramenti indesiderati durante tutta la prigionia di Laura. Per non parlare delle botte, dato che ogni volta che Laura respinge Massimo, ogni volta che lo provoca, ci sono spintoni e prese per il collo. A un certo punto Laura viene persino incatenata al letto e obbligata a guardare Massimo, mentre una prostituta gli pratica del sesso orale.

Sembrerebbe quindi la trama di un film horror, gli abusi psicologici che Laura subisce sono infatti tantissimi e ci si aspetterebbe quindi un finale tragico, oppure una fuga o, ancora, magari qualche forma di redenzione e liberazione. Non accadde nulla di tutto ciò. A un certo punto, Laura, salvata da Massimo da un annegamento, decide di concedersi a lui, grata che le abbia salvato la vita.

Non c’è alcun tipo di sviluppo, Laura cambia idea all’improvviso, nonostante il rapimento, le botte, le minacce. Anche laddove si possa pensare che la vicenda sia verosimile (appellandosi quantomeno alla Sindrome di Stoccolma) c’è però da chiedersi se il suo sia vero consenso.

50 Sfumature infatti, con tutti i suoi difetti, si basava però su un’idea ben precisa di consensualità. Anastasia Steele firma non uno, ma due documenti in cui decide di essere la sottomessa di Christian Grey, un uomo sicuramente stereotipato, ma con un passato alle spalle a “giustificarne” le problematicità.

365 giorni è invece una carrellata di esempi di machismo tossico. Massimo è convinto che il suo corpo e il suo sesso siano qualcosa che ogni donna desidera, tanto da costringerle a concedersi e alla fine, le donne stesse sembrano gradire questa coercizione. Dalla prostituta, all’hostess alla stessa Laura, che all’amica Olga lo descriverà come

un maschio alfa, che si prende cura di te e ti difende.

Pur essendoci molti punti di contatto con 50 Sfumature ( le catene a letto, il palo per le gambe che si allunga, il ballo in maschera, la ex gelosa, un rapporto sessuale in bagno) il messaggio che passa è molto diverso. In 50 Sfumature si parla di una ragazza che trova la propria realizzazione sessuale nell’essere consenzientemente sottomessa e che avvera la sua “fiaba” in stile Cenerentola Bdsm. In 365 giorni passa un altro messaggio: per quanto una donna possa essere femminista e indipendente, a dispetto di quello che lei stessa dice o pensa, nel suo intimo vuole sempre l’uomo in grado di sottometterla.

È chiaro che un film, come ogni espressione artistica, deve avere la libertà di rappresentare le realtà che preferisce, nel modo che preferisce, ma presentare questi paradigmi, senza poi destrutturarli è un problema, un problema etico.

Le violenze perpetrate in nome di un “amore troppo grande”; l’idea che il maschio alfa non debba davvero “chiedere mai”, ma solo pretendere; l’ideale della donna che può essere indipendente quanto vuole, ma si realizza solo accanto (o in questo caso addirittura sotto) a un uomo, sono tutti schemi che a oggi non possono essere messi in scena senza una critica ad accompagnarli.

Sembra quasi anacronistico presentare nel 2020 un contenuto del genere, che oltre ad apparire stantio e stereotipato, va ad alimentare un modo di pensare che ha fatto tanto male alle donne (e agli uomini) e che si sta duramente e con fatica cercando di smantellare.

Alla fine della visione, viene voglia di rivedere di seguito, per una decina di volte almeno, Il club delle prime mogli, in modo di riassestare almeno l’algoritmo di Netflix sulle nostre frequenze emotive e intellettive.

"365 giorni": può un film rappresentare abusi di genere senza condannarli?
365 giorni
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