Therapy speak: perché la diffusione del linguaggio terapeutico può fare male
Assieme a una maggiore consapevolezza per la salute mentale si è diffuso anche il therapy speak. Ecco cosa è e perché può essere rischioso.
Assieme a una maggiore consapevolezza per la salute mentale si è diffuso anche il therapy speak. Ecco cosa è e perché può essere rischioso.
Therapy speak, traducibile come “linguaggio terapeutico” e noto anche come therapy talk, è un termine usato per indicare il linguaggio che fino a poco tempo fa era esclusivamente utilizzato in ambito psicoterapeutico e che è recentemente penetrato nella nostra vita quotidiana.
Parlare di “stabilire limiti salutari” e “red flag”, scherzare sui meccanismi di coping, denunciare comportamenti “tossici” (come il gaslighting) o attribuire caratteristiche e comportamenti tipici di alcuni disturbi della personalità – è il caso dei famosi “narcisisti patologici” – possono essere tutti esempi di come i termini relativi alla terapia sono entrati nel linguaggio mainstream.
La diffusione del therapy speak è legata soprattutto a due fattori. Il primo è il sempre maggior numero di persone che intraprendono percorsi terapeutici grazie anche a una più radicata consapevolezza dell’importanza della salute mentale.
Il secondo, che da questa nuova attenzione al self-care deriva, è la massiccia condivisione, da parte di professionisti del settore ma anche di testate e pagine divulgative, di concetti e termini del linguaggio terapeutico sui social media.
Come ha scritto Delia Cai sull’edizione statunitense di Vanity Fair,
viviamo nell’epoca d’oro di consapevolezza della salute mentale mainstream, in cui la trama del trauma regna sovrana e il linguaggio terapeutico è la nuova lingua franca, con entrambi che ci lasciano in eredità un vocabolario culturale per definire i modi in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri (e noi stessi ) nella santa ricerca della cura di sé.
Se questa maggiore attenzione alla salute mentale è indubbiamente un’evoluzione positiva, lo stesso non possiamo dire dell’irruzione del linguaggio terapeutico all’interno del vocabolario quotidiano.
Il therapy speak in sé non è una brutta cosa. Può aiutarci ad avere un linguaggio condiviso per comprendere meglio noi stessi, le nostre esperienze di vita e le situazioni in cui ci troviamo.
Spesso, però, questi termini vengono fraintesi o divulgati in modo sbagliato. In molti casi le persone ripetono il therapy speak “pop” che imparano dai social media, diffuso a volte da veri terapisti, più spesso da qualcuno che ha una telecamera frontale e ha fatto una ricerca su Google.
È il caso del termine “trauma”, che è passato da indicare “una risposta emotiva a un evento terribile” a un termine generico per tutte le cose sconvolgenti o “trauma bonded”, che come ha ricordato Dani Blum sul New York Times viene spesso usato (sbagliando) per indicare il collegamento che si crea tra persone che condividono una difficoltà mentre la definizione clinica del termine si riferisce a uno specifico modello di abuso, ovvero l’attaccamento emotivo tra aggressore e vittima.
Questa “esplosione del linguaggio diagnostico”, come l’ha definita la Dott.ssa Bandinelli parlando con il NYT, «fornisce un linguaggio generale e semplice per quelli che sono spesso enigmi complessi e specifici».
Le persone abusano di questo linguaggio, utilizzando ad esempio concetti molto pesanti come quello “del gaslighting” per descrivere situazioni più banali e quotidiane, con il rischio di eliminare ogni sfumatura da una conversazione. Classificando qualcuno come “narcisista” quando non lo è, ad esempio, ci porta ad ignorare altri aspetti importanti della relazione con quella persona, che non corrispondono chiaramente a quella definizione.
L’esperienza umana ha molte gradazioni e i termini del linguaggio terapeutico indicano spesso i modi più estremi per descrivere quelle esperienze. Un amico può essere egoista e non narcisista. Puoi sentirti stressato senza subire traumi. Un partner può mentire senza fare gaslighting. Per questo, è fondamentale evitare di patologizzare i comportamenti che non lo sono, anche se sono fastidiosi o dolorosi.
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
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