"Profeti" e quelle donne partite per unirsi all'Isis di cui l'Occidente si è dimenticato

Prigionia, diritti delle donne, Medio Oriente, religione, scontro di civiltà: il nuovo film di Alessio Cremonini punta l'attenzione sui pregiudizi nei confronti di tutto quello è diverso e riaccende l'interesse verso le foreign fighters che hanno raggiunto la Siria durante la guerra dell'Isis.

Tra i tanti meriti di Profeti film di Alessio Cremonini in sala dal 26 gennaio 2023, c’è quello di poter riaccendere l’attenzione nei confronti delle migliaia di donne che negli anni sono partite dall’Occidente per unirsi all’Isis in Siria e in Iraq: mogli, madri, figlie che hanno deciso di lasciare Londra, Parigi, Roma, New York per vivere e spesso combattere nell’auto-proclamato Califfato.

Dopo aver affrontato da vicino la morte in carcere di Stefano Cucchi, in Sulla mia pelle, Cremonini racconta stavolta l’incontro-scontro, ambientato nella Siria del 2015, tra due donne, una giornalista italiana e una giovane londinese, di fede islamica, che, sposato un mujahidin (per la Treccani “si definiscono così i membri della guerriglia islamica radicale attivi in molti conflitti contemporanei, soprattutto nell’Asia centrale e nel Sud-Est asiatico“), ha scelto di seguirlo in Siria e diventare una foreign fighter (in italiano, combattente straniero; sempre secondo la Treccani: “chi va a combattere in un Paese straniero diviso tra parti in conflitto, in nome e per conto di una causa politica, ideologica, religiosa”).

Molte delle donne che hanno deciso di vivere sotto la Sharia (letteralmente “strada battuta”, vale a dire le regole di vita e di comportamento dettato da Dio per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli secondo l’Islam), hanno avuto un ruolo attivo, schiavizzate ma anche combattenti, con al loro fianco, spesso, i propri figli. Secondo Women in the Islamic State, un documento diffuso in arabo dalla brigata femminile al-Khansaa (tradotto in inglese dalla Quilliam Foundation), le donne dell’IS devono seguire comportamenti specifici, ben regolati e limitanti per rispettare i progetti che “Dio ha stabilito per loro”: possono essere date in sposa dai 9 anni, dovrebbero studiare fino a 15, non dovrebbero uscire fuori casa regolarmente né lavorare, se non come insegnanti o dottoresse, devono saper cucire e cucinare, devono rispettare rigide regole sull’abbigliamento e sulla condotta, devono supportare i mariti nel jihad nelle maniere più opportune.

L’Isis è stato dichiarato sconfitto militarmente in Siria nel 2019 (anche se il gruppo terroristico di stampo jihadista continua a rappresentare una minaccia sia a livello regionale che a livello globale) e da allora decine di migliaia di civili sono stati ammassati nei campi di prigionia nel Nord-Est della Siria.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, raggiunto al telefono, stima il numero di donne e bambini che devono essere ancora rimpatriati in Europa sull’ordine delle centinaia, spiegando come non sia possibile ottenere un numero esatto a causa dell’assenza di un’anagrafe nei campi gestiti dalle autorità curde.

I rimpatri hanno visto un rapido aumento nel 2022, a causa probabilmente delle pressioni sempre più crescenti da parte delle Nazioni Unite, della Corte europea per i diritti umani e di diverse organizzazioni umanitarie internazionali, come Amnesty e Human Rights Watch. “Dovuti anche al fatto che alcuni Paesi occidentali si sono finalmente dotati di un quadro giuridico adatto per perseguire le donne, alcune accusate di complicità con l’Isis, una volta rientrate nel loro Paese“, si legge in un lancio dell’Ansa dell’8 novembre 2022.

Questione, però, tutt’altro che risolta se il 16 gennaio 2023 il Comitato contro la Tortura dell’Onu ha adottato un testo che accusa la gestione dei rimpatri da parte della Francia (come si evince da un articolo uscito il 21 gennaio su Libération a firma di Louis Moulin e Luc Mathieu); denuncia che si va ad aggiungere alle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo e del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia. La Francia, infatti, ha rimpatriato 35 bambini negli ultimi mesi, ma il quadruplo rimane detenuto: “150 bambini francesi e le loro madri stanno affrontando un quinto inverno nei campi”, ha denunciato l’avvocato Marie Dosé, che rappresenta diversi parenti di questi reclusi e ha portato il caso davanti alle Nazioni Unite.

L’opinione pubblica, nel frattempo, dopo più di 11 anni di conflitti, rimane pressoché impassibile; talmente soggiogata dalla normalizzazione della guerra in Siria e delle sue conseguenze – come l’ha definita la giornalista italo-siriana Susan Dabbous durante la conferenza stampa di presentazione del film Profeti – da non sollevarsi neanche alla notizia, diramata nella primavera del 2022, che più della metà della popolazione siriana (circa 12 milioni di persone) si trovi a dover fare fronte a una grave insicurezza alimentare in quello che un tempo era il granaio del Medio Oriente.

Perché vedere Profeti film di Alessio Cremonini

Accurato, complesso, lontano da facili moralismi, Profeti va ad aggiungere un nuovo tassello nella filmografia essenziale e militante di Alessio Cremonini, regista attratto, per sua stessa ammissione, dal tema della prigionia. Oltre questo, nella sua nuova indagine condotta attraverso il proprio cinema ci sono stavolta i diritti delle donne, il Medio Oriente, la religione, lo scontro di civiltà.

Un film di pochi dialoghi e di molti sguardi, che trova il suo senso profondo in una delle prime scene, quando Sara, la giornalista italiana che è stata fatta prigioniera dall’Isis durante un blitz nella notte, tra le strade non battute della Siria del 2015, è gettata su un giaciglio di fortuna, tra la polvere e la distruzione della guerra, sotto una spessa coperta di lana. “Una donna non deve creare scandalo, neanche se è occidentale“, le ha intimato poco prima un miliziano.

«Quella coperta sta lì per non fa vedere e quindi per annullare: è la sintesi brutale del niqāb. Sta a raccontare un’assenza, non solo della giornalista che c’è sotto, ma anche di Dio, il Grande Assente», ha proseguito Cremonini in conferenza.

Il corpo femminile negato – e quindi assente – è quello di Jasmine Trinca, attrice molto amata da autori e critica, scoperta a 19 anni da Nanni Moretti, quando le riserva il ruolo di Irene ne La stanza del figlio, che per prepararsi al ruolo ha trascorso «tanto tempo a parlare con Domenico Quirico, giornalista rapito in Siria. Mi ha raccontato della mancanza di senso che prende chi viene imprigionato», come ha raccontato alla stampa.

Accanto a lei, la bravissima Isabella Nefar (che, dopo l’infanzia a Teheran, ha studiato all’Accademia di Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e alla London Academy of Music and Dramatic Art) è un’intensa e calibrata Nur, la carceriera che ha trovato in Allah il punto di riferimento che mancava alla sua vita di ragazza londinese.

Chi rappresenta il bene e chi il male delle due è questione che sembra non toccare Cremonini. Come sempre capita nei bei film, in ognuna di loro c’è porzione di entrambi. Sta alle spettatrici e agli spettatori decidere, se proprio vogliono, per chi parteggiare. Certo è che Profeti si pone su altri piani molto più interessanti, puntando l’attenzione su quanto pregiudizio ci sia in un confronto di civiltà, su quanto in Occidente si dia per scontato che sia propaganda solo quanto prodotto dal nemico, su come la donna, in Europa come in Medio Oriente, sia comunque, se pur in modi e misure differenti, soggetta allo sguardo del patriarcato.

Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne. In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne“: la combattente curda intervistata da Sara che apre Profeti, lunghi capelli e fucile in spalla, è pronta a dare la sua vita per la causa in cui crede, come è pronta a fare altrettanto Nur. Gli oltre 140 giorni di prigionia della reporter italiana, emancipata donna occidentale che non ha Dio, non ha marito né figli ma ha riversato tutta la sua vita nel lavoro, serviranno – a lei e a noi, se vorremo metterci in ascolto – a porsi domande sulle tante strade che possono essere imboccate.

Una scena di “Profeti” diretto da Alessio Cremonini (Foto di Kash Gabriele Torsello – Courtesy Press Office)

Scheda del film

Profeti è diretto da Alessio Cremonini, diventato celebre per Sulla mia pelle, il film con Alessandro Borghi sul caso Cucchi che gli è valso un David di Donatello come miglior regista esordiente.

Scritto da Cremonini e Monica Zappelli, il lungometraggio si avvale della consulenza di Susan Dabbous, giornalista italo-siriana che nell’aprile del 2013 è stata sequestrata in Siria e tenuta prigioniera con altri tre giornalisti italiani, tutti rilasciati dopo 11 giorni (rapimento raccontato poi nel diario Come vuoi morire? pubblicato nel 2014 con Castelvecchi). Dabbous ha collaborato con Cremonini anche nel 2012, firmando con lui la sceneggiatura di Border, film basato sulla storia vera di una drammatica fuga di due sorelle dalla Siria alla Turchia.

Jasmine Trinca e l’attrice italo-iraniana Isabella Nefar interpretano una giornalista italiana, Sara, rapita dall’Isis e la sua carceriera, Nur, che dopo una vita a Londra ha scelto di vivere nel Califfato al fianco del marito mujahidin. Tra le due, si assiste a un confronto serrato, fatto di lunghi silenzi, nel progressivo tentativo di convertire la donna occidentale all’Islam. Nel cast, anche Ziad Bakri, col ruolo del leader dell’Isis.

La fotografia si deve a Ramiro Civita (autore della fotografia di Garage Olimpo, di Marco Bechis, sul dramma dei desaparecidos argentini), la scenografia è firmata da Sabrina Balestra, mentre i costumi sono di Angela Tomasicchio. Al montaggio, Marco Spoletini.

Profeti è in sala dal 26 gennaio, distribuito da Lucky Red.

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