"Gli Stati Uniti contro Billie Holiday", il biopic sull'icona della musica jazz

Un'infanzia di povertà, un'esistenza fatta di violenze, prostituzione, discriminazioni e tossicodipendenza, una voce ineguagliabile: Lady Day, la Signora del Blues, è stato questo e molto altro. Un film prova a raccontarlo.

Strong, beautiful, black: Billie Holiday era forte, bellissima e nera, tre motivi sufficienti a ché gli Stati Uniti, nella persona dell’ispettore del FBN (Federal Bureau of Narcotics) Harry Anslinger, facesse di tutto per distruggerla.

Il senso ultimo del bel Gli Stati Uniti contro Billie Holiday (The United States Vs. Billie Holiday), diretto da Lee Daniels e nelle nostre sale dal 5 maggio 2022, sta tutto in una battuta dell’agente federale Jimmy Fletcher (interpretato da Trevante Rhodes) quasi al termine del film con Andra Day nei panni della celeberrima cantante jazz.

La figura di Billie Holiday, nata Eleonor Fagan e soprannominata Billie in omaggio all’attrice Billie Dove, solo da qualche anno è stata riscattata dalla descrizione che la voleva semplicemente una donna incapace di relazionarsi con gli uomini e vittima della propria tossicodipendenza, complice anche un saggio di Angela Davis del 1998, Blues Legacies and Black Feminism, nel quale si sostiene che, insieme a Ma Rainey e Bessie Smith, abbia gettato le basi per una nuova estetica, che ha consentito l’affermazione di nuovi valori sociali, morali e sessuali, al di fuori dei vincoli imposti dalla rispettabilità della classe media.

Se da una parte, con l’esecuzione di Strange Fuits, il brano di Abel Meeropol contro il linciaggio (pratica che – va ricordato – negli Stati Uniti è stata riconosciuta come reato federale solo il 29 marzo 2022 dopo che in meno di un secolo, tra il 1882 e il 1968, ha permesso di torturare e uccidere almeno 5mila persone, per la maggior parte afroamericane), Billie Holiday ha reso famoso il canto di protesta considerato oggi, dal punto di vista simbolico, fondamentale per il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti quanto l’azione di Rosa Parks, dall’altra, prima donna nera a esibirsi con una band di bianchi, ha cantato l’amore fuori dal matrimonio e il sesso slegato dalla procreazione: emancipazione razziale ed emancipazione femminile, travolte insieme dal racconto delle violenze infantili, del carcere, del meretricio, della tossicodipendenza e dei legami sbagliati.

Concepita da una madre sedicenne, violentata da un vicino a 10 anni, da cui viene accusata di adescamento (accusa che le costò due mesi di riformatorio), prostituta bambina finché per affrancarsi dal marciapiede si propone come ballerina nei locali notturni di New York, finché, a 15 anni viene assunta come cantante nei club di Harlem.

L’addomesticamento che non è riuscito al FBN, neanche con l’arresto sul letto d’ospedale, in punto di morte, è riuscito a un’eredità tradita che anziché di coraggio ha preferito parlare di sofferenza, anziché di lotta ha preferito parlare di amore, quando – forse – la parola chiave per descrivere Lady Day era proprio strong, forte come lo è ancora oggi la sua voce e l’interpretazione che ha dato di alcune delle canzoni più belle mai scritte. Forte, come il patrimonio artistico che ha lasciato e che ora Lee Daniels, con il suo Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, prova a rimettere al posto che le compete.

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Andra Day in Gli Stati Uniti contro Billie Holiday (from Paramount Pictures. Photo Credit: Takashi Seida)

Perché vedere Gli Stati Uniti contro Billie Holiday

Impossibile, per chi ama Billie Holiday e le indescrivibili sfumature della sua voce, trovare poco più che accettabile la performance canora di Andra Day (candidata agli Oscar come migliore attrice), che pure si cala con intensità e sensibilità nei panni di Lady Day.  Accanto a lei, un buon cast su cui spicca il fascinoso Trevante Rhodes (arrivato al successo con il bel Moonlight di Barry Jenkins e Bird Box, di Susanne Bier, tra i film più visti nella storia di Netflix).

Lee Daniels e la sua sceneggiatrice, la premio Pulitzer Suzan-Lori Park, costruiscono un biopic che, pur rispettando un canone che pare ormai codificato per questo genere cinematografico, prova a varcare i confini della semplice agiografia artistica, nel tentativo di svelare i conflitti nella storia dell’attivismo politico nero, così come aveva fatto un documentario da poco uscito dalle nostre parti, Martin Luther King vs FBI, diretto da Sam Pollard, che aveva mostrato l’accanimento del FBI guidata da J. Edgar Hoover nei confronti del Reverendo King, leader afroamoericano dei diritti civili (ucciso nell’aprile del 1968).

Sul fronte puramente estetico, invece, restano impressi gli abiti indossati da Andra Day, una riuscita mescolanza di silhouette anni Quaranta e un look più contemporaneo: il costumista di origini italiane Paolo Nieddu (di genitori sardi) infatti si è affidato a Prada per creare 9 capi, prendendo ispirazione dai modelli d’archivio della casa di moda milanese.

Splendide le gardenie fresche tra i capelli dell’attrice, immancabili nelle acconciature della cantante, emblema come erano della sua eleganza e della sua potenza, realizzate dall’hair stylist Charles Gregory Ross (deceduto dopo aver contratto il Covid nell’aprile del 2020).

Godibile nel complesso, Gli Stati Uniti contro Billie Holiday si perde in una certa confusione, non trovando una sua genuinità e non scoprendo mai del tutto l’anima della sua eroina.

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Andra Day e Trevante Rhodes in Gli Stati Uniti contro Billie Holiday (from Paramount Pictures. Photo Credit: Takashi Seida)

Scheda del film con Andra Day

Il regista Lee Daniels, dopo l’apprezzato Precious (che gli è valsa una candidatura per la regia, oltre a due Oscar alla sceneggiatura a Geoffrey Fletcher e all’attrice non protagonista Mo’Nique), tratto dal romanzo della poeta Sapphire, The Paperboy, sull’odio razziale, e The Butler, su un maggiordomo afroamericano alla Casa Bianca, torna dietro la macchina da presa prendendo spunto dal libro di Johann Hari Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs, secondo cui l’obiettivo principale della guerra alla droga fosse reprimere le minoranze di colore e consolidare il dominio bianco, più che sradicare la piaga della tossicodipendenza e del traffico di stupefacenti. La vita e la carriera di Billie Holiday, messe in scena da Daniels, sono così occasione per riflettere una volta di più sul razzismo e sulla discriminazione razziale.

Il film si concentra sui 20 anni conclusivi della vita dell’icona della musica jazz, da quando nel 1939, al Cafè Society, al Greenwich Village, uno dei pochi locali in cui i neri potevano sedere al fianco dei bianchi, cantò Strange Fruit (Grammy Hall of Fame Award 1978, nonché eletta dal Time la canzone del secolo): lo strano frutto era il corpo di un nero ucciso dai bianchi e appeso a un albero. La canzone attirò l’attenzione di Harry J. Anslinger, un agente del Federal Bureau of Narcotics che decise di trasformare la cantante nel capro espiatorio di una battaglia contro la droga, prendendo di mira la sua vita complicata, vessata da amori infelici e dipendenze da alcol e da droghe. Nel 1959, dopo la sua ultima incisione (Last Recording, originariamente intitolato solo Billie Holiday), da tempo affetta di cirrosi epatica, viene ricoverata per un attacco di epatite, in un ospedale a New York, dove muore il 17 luglio, a soli 44 anni.

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