"Non mi depilo e i peli sono tutto ciò che lo sguardo patriarcale vede"

Negli anni e nel tempo ho dovuto imparare a non curarmi di loro, perché ad una donna non è consentito avere i peli del corpo non depilati. Già dalla prima età puberale, quando il corpo comincia ad avvicinarsi alla forma adulta rimanendo ancora agganciato all’infanzia, il pelo ne è una trasformazione sgradita.

Sono in spiaggia, un uomo anziano mi guarda, mi fissa. Mi fissa l’incavo del braccio che mi tiene su la testa. L’angolo ascellare in cui i miei peli non sono rasati. Lo guardo, ma lui non mi nota, i miei peli sono tutto ciò che riesce a vedere e che si ostina a guardare.

In quel suo non vedermi e osservarmi c’è tutto un intento, moralizza ignorando il mio sguardo, concentrandosi su ciò che palesemente non gradisce. Mi tiro sui gomiti e getto un “hey” nella sua direzione. Scuote il capo e se ne va. Mi ignora dopo non aver ignorato i miei peli. Quasi non fossero miei, quasi fossero suoi.

Rimango così, attonita, e penso che se avesse risposto avrei potuto esercitare del controllo sulla situazione, avere un ruolo. Il suo silenzioso andar via mi nega anche questo.
Ripenso alle altre conversazioni sui peli che ho avuto, più personali.

Mia madre mia ha regalato smorfie di disappunto, mio padre mi scrisse addirittura un messaggio, pochi anni fa per redarguirmi a riguardo, le mie zie chiedono a Save, al mio compagno, cosa ne pensa del mio radermi, come se la vive a stare con una donna che non si depila.
E ancora, quando parlo di peli, del loro valore, è pieno di persone che s’incuriosiscono e vogliono sapere “ma non li togli proprio mai?” “Ah, io non potrei”.

E se ne parlo troppo arriva sempre qualcuno a dirmi che non è un vero problema, che c’è ben altro a cui pensare. Mi chiedo dunque, ma se un uomo sconosciuto su una spiaggia invece di pensare a sabbia e mare si ferma per fissarmi un’ascella distrattamente esposta senza nemmeno degnarmi della possibilità di riprendermi da quella violazione della privacy fisica, allora forse non è che sono io a dare troppa importanza ai peli, sono quelli che hanno un’idea precisa di come dovrebbe essere il mio corpo ad avercela.

E quindi, la questione appare nella sua complessa essenza, non è tanto una questione di pelo ma una questione di determinazione esterna su corpi altri, un esercizio di proprietà sociale sul corpo femminile. Sul corpo mio, ma che per molti deve performare secondo criteri a me estranei e, quindi, più loro che miei.

Perché a me, in fin dei conti, dei peli importa poco. Li tengo, non mi rado per andare in spiaggia e non mi curo molto della loro presenza nelle mie giornate, stanno lì, come una parte di me qualsiasi. Eppure, non è così semplice.

Negli anni e nel tempo ho dovuto imparare a non curarmi di loro, perché ad una donna non è consentito avere i peli del corpo non depilati. Già dalla prima età puberale, quando il corpo comincia ad avvicinarsi alla forma adulta rimanendo ancora agganciato all’infanzia, il pelo ne è una trasformazione sgradita. Non fa male, non nuoce alla salute e certamene non nuoce a quella altrui, ma nel suo esistere c’è una concentrazione fitta di significati sessuali e di dominio. Le donne, ma già le bambine, hanno corpi e su quei corpi viene imposta una sessualizzazione, una circoscrizione espressiva passiva su cui è calata una patina sessuale, quindi che rientra nella sfera della vita adulta, ma, al contempo, qualsiasi cenno adulto sul medesimo corpo -il pelo ad esempio – è ascritto al canone della bruttezza.

Il brutto è la categoria in cui viene collocato il pelo, sfruttando il sistema di controllo estetico che, di fatto, determina esternamente e a priori il valore attribuito ad una donna. Per non essere inquadrate nella scatolina del brutto, per non rimanere nell’ambito dell’indesiderabile, bisogna agire, modificare e, in questo caso, radere.

Si tratta di controllo, palesemente esercitato mediante dei canoni, quindi codici socialmente condivisi e tramandati, sulle espressioni più naturali e fisiologiche del corpo femminile.
Il rigetto degli elementi di maturità fisica fa ben riflettere sulle modalità con cui il desiderio viene indirizzato. La caratteristica propria dell’età adulta è la responsabilità, derivata dalla stabilizzazione della percezione del sé nel mondo e, quindi, la possibilità di determinarsi autonomamente. L’infanzia, per contro, necessita di tutela, di un adulto che decida. Appare allarmante e evidente nella sua linearità, il corpo adulto non può essere determinato all’esterno, o meglio, tale determinazione avviene in quanto violazione e violenza. E quindi, relegando il corpo femminile all’immaginario di un’eterna infanzia non lo si depotenzia e priva del potere decisionale primo che spetterebbe, dichiarazione dei diritti dell’umanità alla mano, di decidere per sé stesso?

Tutto il mito della bellezza, nella sua interezza, si innesta sull’idea del corpo infantile: magro, glabro, senza segni d’età, con colori accesi e definiti.

Il dominio, la proprietà se vogliamo, sono quindi attribuiti a chi determina il canone, a chi stabilisce cosa sia bello e cosa no in una donna, la figura unica a cui è concesso desiderare, determinarsi ed invecchiare: l’uomo.

Quindi, che un uomo anziano e molle si permetta di fissarmi l’ascella è un esito naturale in un sistema in cui si presume che il mio corpo, e quindi la mia esistenza, abbia valore solo in funzione di quello sguardo specifico. Lo stesso sguardo che nelle pubblicità dei rasoi non nota nemmeno l’assurdità delle attrici che depilano gambe già perfettamente depilate. Il medesimo occhio che non batte ciglio quando nella pubblicità della Venus la modella quasi accenna a non uscire di casa, ma in suo soccorso accorre il rasoio, Venus di gillette, che la libera dal pelo e le permette di uscire. Di presentarsi al mondo, senza pelo.

Il pelo è indesiderabile al punto che molti lo considerano sintomo di sporcizia. Perché quale modo migliore di destabilizzare una possibile scelta avversa al sistema se non con lo stigma dell’incuria?

In soccorso al brutto e al vecchio giunge la trasandatezza che, nella società iper-performativa, è una vera e propria minaccia di morte sociale.
Per una donna, tutto questo si traduce nel non avere la libertà di vivere con i propri peli senza curarsene, perché toglierli in maniera automatica significa vivere con una coartazione e non rimuoverli significa vivere con lo stigma.

E nella complicatezza di questa pressione subentra il giudizio di chi non comprende la qualità di tali scelte e le banalizza per togliere loro qualsiasi significato politico e personale, pur essendo in realtà anche tali dequalificazioni un’attribuzione del valore della scelta di depilarsi o meno.

Non è forse superficiale pensare di poter giudicare la cura, la bellezza e la qualità di un individuo sulla base dei peli che ha o non ha sotto le ascelle? E non è forse più sintomatica tutta l’attenzione di chi non li vuole veder sull’altra il dato empirico del loro peso politico?

Ed io che volevo solo starmene in spiaggia con la testa appena alzata a guardare il mare.

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