C’è una spiegazione piuttosto bizzarra dietro l’origine del modo di dire “parlare a vanvera”, ma in realtà le cose non stanno esattamente come descritte in questa teoria. Ma andiamo con ordine.

“Parlare a vanvera” significa parlare senza un vero senso logico, a caso, fare discorsi sconclusionati; il termine compare per la prima volta nel 1565, in un testo dello storico fiorentino Benedetto Varchi, anche se pare sia circoscritto alla sola area di Firenze.

C’è però un altro significato di vanvera: nella commedia di Giovan Maria Cecchi Il figliuol prodigo, del 1570, infatti, vanvera compare come sinonimo di “confusione, rumore”. L’origine della parola vanvera, del resto, è onomatopeica, in quanto sarebbe una variante di “fanfera”, derivante a sua volta da “fanfara”, “fanfarone”, che richiamano il suono “fan fan” tipico delle trombe militari. In questo senso, “parlare a vanvera” sarebbe simile a “parlare all’aria” o a “dare fiato alle trombe”.

Da qui arriviamo alla bizzarra teoria cui accennavamo all’inizio: nel XVII-XVIII secoli, presso molte corti europee, era in uso uno strumento piuttosto particolare, pare di origine veneziana, una specie di tubo in pelle da applicare direttamente al deretano, che permetteva alle persone di “liberarsi” di flatulenze varie in ogni contesto; il tubo, infatti, attutiva ogni rumore e tratteneva gli odori. Parliamo appunto della vanvera.
Ma non è vero, come molti hanno ipotizzato, che il modo di dire derivasse da questo particolare oggetto (da cui è nato anche il folkloristico “parlare col culo”): è stato infatti l’oggetto a prendere il nome da un termine ampiamente in uso al momento della sua invenzione.

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