Gli indiani nelle riserve: cronaca di uno sterminio legalizzato

Il mito dei nativi americani come violenti e selvaggi ci accompagna da sempre nella letteratura e nei media, ma siamo sicuri di conoscere la loro storia? Una cronaca dei massacri, delle limitazioni e delle segregazioni dal punto di vista dei vinti.

Si stima che nelle Americhe, tra il 1492 e il 1890, siano stati sterminati indios e nativi americani per un numero complessivo compreso tra i 70 e i 115 milioni, rendendolo il più lungo e efferato genocidio della storia. Un crimine contro l’umanità che non solo è stato storicamente falsificato e rimosso, ma che viene tutt’oggi celebrato e glorificato come simbolo della potenza occidentale.

La conquista del “Nuovo Mondo”

A partire da Cristoforo Colombo, per poi continuare con i conquistadores spagnoli, furono molti gli europei che giunsero nel “nuovo mondo” allo scopo di sfruttarne le ricchezze. Se in un primo momento la furia colonizzatrice dell’uomo bianco si concentrò in America meridionale, a partire dal XVI secolo iniziarono a sorgere le prime colonie nei territori settentrionali.

Nell’America settentrionale furono di meno i nativi a morire, ma, se possibile, l’impatto fu ancora più devastante per via del numero esiguo di abitanti del territorio. Tra le cause principali di decesso del popolo indiano d’America ci furono i numerosi attacchi diretti dei colonizzatori, il cambio d’ambiente dovuto alla perdita dei lori territori e il gran numero di malattie portate dagli europei, contro le quali i nativi non avevano anticorpi.

Secondo una stima, sul finire dell’Ottocento, il popolo nativo era ridotto a circa 250 mila individui. Per questo possiamo parlare di etnocidio.

Le guerre indiane

Se nella prima fase della conquista le lotte tra europei e nativi americani erano di natura episodica, con la nascita degli Stati Uniti le repressioni si fecero sistematiche. Inizialmente, i rapporti tra i due popoli furono di natura commerciale. Poi, con l’aumento del numero di coloni provenienti dalle nazioni europee, le differenze culturali si acuirono e gli interessi economici sul territorio aumentarono.

I bianchi si imposero come civilizzatori del popolo selvaggio e crearono una pressione geografica tale da spingere le varie tribù a scontrarsi tra loro. Il continuo avanzamento dei colonizzatori, però, convinse le tribù superstiti, come Sioux e Apache, ad accantonare la rivalità per organizzare una resistenza. Ebbero, così, inizio quelle che gli storici definiscono le guerre indiane.

È in questo periodo che nasce lo stereotipo del nativo violento e selvaggio, avallato da una corposa letteratura che culmina nel genere western.

La legalizzazione dello sterminio

Nel corso dell’Ottocento la popolazione statunitense crebbe in maniera esponenziale, gli iniziali 13 stati divennero 34 e questo rese necessario un avanzamento territoriale. Nel 1829 il presidente Andrew Jackson promulgò la prima legge contro la comunità indiana d’America. Il Removal Act fu un vero e proprio ordine di deportazione forzata per le comunità native, che dovettero abbandonare la Florida per trasferirsi nell’attuale Oklahoma.

I decenni successivi videro l’attuazione di una sorta di “politica di sterminio“. Furono numerose le battaglie, tra le quali possiamo ricordare come la più sanguinosa il massacro di Sand Creek del 1864. Il 29 novembre un gruppo di soldati della milizia statale, guidati dal colonnello John Chivington, attaccò un accampamento di Cheyenne, mutilando uomini e bambini, stuprando le donne.

Dopo un ulteriore conflitto per il controllo dei territori delle Black Hills in Dakota, il 31 gennaio 1876 la Casa Bianca fece partire la “soluzione finale“. Un decreto governativo stabilì che tutti i nativi americani superstiti si sarebbero trasferiti in luoghi a loro adibiti: le riserve. Inizialmente questi luoghi di reclusioni avevano proprio la funzione di campi di concentramento e rimarranno a lungo l’unica possibile residenza dei nativi americani. I nativi non potevano oltrepassare i confini delle riserve senza autorizzazione e non erano liberi di praticare la caccia. Vennero istituiti dei consigli tribali che, però, non avevano il reale controllo delle riserve, gestite, di fatto, dal governo.

I nativi americani oggi

Dovranno passare diversi decenni prima che ai nativi americani sia concessa la possibilità di integrazione nella società. Solo nel 1964 con il Civil Rights Act verranno abolite le leggi razziste e la segregazione. Proprio negli anni Sessanta inizia una nuova fase di apertura da parte del popolo americano; una rivalutazione politica, sociale e anche culturale dei nativi. Solo negli ultimi anni stanno emergendo nuove verità sulle atrocità perpetrate ai danni dei nativi. È del 1974, ad esempio, l’inchiesta che mette in luce il gran numero di sterilizzazioni forzate praticate dai bianchi sui nativi in età fertile.

L’ultimo censimento del 1980 segnala la presenza di oltre un milione e mezzo di nativi americani su suolo statunitense. Nonostante la possibilità di integrarsi nella società americana, molti nativi americani, legati ancora alla loro storia e cultura, preferiscono vivere nelle riserve. Ad oggi, se ne contano circa 300 federali e 21 statali.

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