"Il mio nome è Clitoride", il film su come ci è stato insegnato (male) il sesso

La vergogna, la frustrazione, il disagio (persino la violenza) sono spesso conseguenze del silenzio che circonda la sfera sessuale femminile: un documentario di due registe affronta il tema insieme a dodici giovani donne.

Viaggio nel continente ignoto chiamato clitoride: il documentario di Lisa Billuart-Monet e Daphné Leblond, Il mio nome è Clitoride, è una guida redatta attraverso il confronto a distanza di dodici giovani donne per esplorarne la sessualità. Lo scopo ultimo? Raggiungere una consapevolezza di sé stesse e del proprio piacere che sia lontana da ogni sorta di pruderie e libera da pregiudizi e imposizioni sociali.

Girato in Belgio, il documentario pone da subito una questione linguistica: a Bruxelles, la lingua francese non prevede il femminile per la parola clitoride. Una delle battaglie vinte, almeno in parte, dalle femministe di casa nostra, quella dell’utilizzo al femminile di clitoride (variante attestata sin dalla fine del Seicento), non è neanche presa in considerazione dalle giovani donne autrici e protagoniste del film.

D’altro canto, le conquiste italiane sembrano fermarsi qui. Con tutti i tanti limiti pur messi in luce dalle ragazze, infatti, in Belgio si insegna educazione sessuale a scuola sin dal 1984 “in seguito a un lungo dibattito iniziato negli anni Settanta con la questione dell’aborto e negli anni Ottanta con l’incremento di HIV/AIDS”, come si legge nel documento L’educazione sessuale in Europa pubblicato nel 2016 da Valigia Blu sulla base del rapporto Policies for Sexuality Education in the European Union.

È un insegnamento tutto rivolto al punto di vista maschile – lamentano nel documentario – e da un punto di vista cisgender ed eterosessuale. Si spiega – incalzano – come non restare incinta e non contrarre malattie veneree, non certo come provare un orgasmo. Meglio di niente, potremmo obiettare da queste parti, dove a differenza della maggior parte degli Stati membri dell’Unione europea (insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania), l’educazione sessuale non è una materia scolastica obbligatoria.

Nel 2013, in seguito alle indicazioni della sezione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Centro Federale Tedesco per l’educazione alla salute che invitavano  a trattare la sessualità in maniera curricolare e multidisciplinare fin dalla scuola primaria, Paola Binetti, di professione psichiatra, eletta al Parlamento nelle file dell’Ulivo (e poi passata all’UDC), presentava un’interrogazione al Ministro della Salute con la quale bollava il documento dell’OMS come “indistinguibile da un manuale di corruzione dei minori, nonostante il lessico voglia apparire scientificamente fondato e ispirato alla ideologia di genere, mentre contraddice principi elementari di opportunità e di prudenza nella formazione dei minori in questo delicato campo”.

In quest’ottica, sembra davvero surreale che le ragazze belghe notino che sui libri scolastici di anatomia non compaia la clitoride, che non si spieghi dove è posizionata, che sia lunga ben 11 centimetri e che svolga un unico scopo: far provare piacere.

Se con un enorme sforzo di immedesimazione si può arrivare a comprendere come, per una parte di questo Paese, sia ancora troppo scabroso parlare di orgasmo e del fatto che una donna possa pretenderne dal partner (tralasciando l’eventualità che possa addirittura essere una e non uno o magari alcune/i), ci si chiede a che età insegnare cosa sia un rapporto consensuale, argomento fondante per una battaglia efficace contro violenza di genere, stupri e femminicidi. Di più: a che età discutere con la generazione Z di quegli stereotipi e quelle discriminazioni che influenzano la vita relazionale, emotiva e sessuale delle persone.

Ho dovuto affrontare lo stereotipo della ragazza grassa e facile“, spiega una delle intervistate. E poi, a ruota libera, eccole una dopo l’altra le dodici protagoniste a snocciolare le tante etichette volte a ridicolizzare, umiliare e in ultima istanza a dominare le donne: porche, frigide, sgualdrine, bloccate, puritane. Fino alla discriminazione nei confronti delle musulmane: “C’è la Fatima velata, che ha 16 fratelli ed è oppressa dal padre; che quando si presenta tutti immaginano essere la bloccata per eccellenza che non ha idea cosa sia il sesso. Oppure c’è il genere Leyla, la maghrebina finita nel porno… Mi sono sentita subito giudicata sin dalle scuole medie: in un modo o nell’altro“, racconta la ragazza di origini arabe.  Come superare le stigmatizzazioni? Anche insegnando sin da giovanissime a cercare una sessualità libera, egualitaria e appagante.

A scuola si insegna ai giovani il funzionamento della procreazione, non il piacere sessuale. Questo si è sempre saputo, ma oggi ci accorgiamo che s’insegna il modello della soggezione alle bambine e ai bambini la conoscenza del loro sesso e l’ignoranza del sesso femminile. Cosa significa per la bambina che ha scoperto la clitoride, e più per quella che non l’ha scoperta, venire informata che il suo sesso è la vagina? Bisogna rispettare le tappe della conoscenza soggettiva del piacere nelle bambine, nelle adolescenti partendo dall’esperienza autoerotica: quella è l’educazione sessuale che in quel momento ha un nesso con sensazioni e emozioni loro proprie. Tutto il resto è imposizione di una sessuofobia riformata, paternalista, e scoraggiante per l’espansione della bambina”: scriveva l’italianissima Carla Lonzi nel 1970 in La donna clitoridea e la donna vaginale.

Sono trascorsi 50 anni, eppure sembra che la strada da percorrere sia ancora davvero lunga. I numeri di violenza sulle donne, di gravidanze nelle adolescenti, di contagi di HIV, ma anche i casi in aumento di sessismo e discriminazioni, non fanno che confermare quanto sia sempre più urgente ripartire nell’esplorazione di quello che a oggi, purtroppo, rimane per troppi – e per troppe – un territorio sconosciuto.

Il mio nome è Clitoride
Una scena tratta dal documentario “Il mio nome è Clitoride” (Fonte: Ufficio stampa)

La scheda del documentario

Il mio nome è Clitoride, distribuito da Wanted Cinema, è disponibile sulle piattaforme Wanted Zone, Iorestoinsala, MioCinema, Chili, Cg Home Entertainment, dall’8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donne.

Il documentario, diretto nel 2019 da Lisa Billuart-Monet e Daphné Leblond, è una guida alla consapevolezza della propria sessualità attraverso le esperienze di dodici giovani donne dai 20 ai 25 anni.

Le due registe, in seguito a una conversazione sulle loro difficoltà sessuali, hanno deciso di mettersi alla ricerca di coetanee disposte a raccontarsi, nel tentativo di superare le stigmatizzazioni e il silenzio che circondano la sfera sessuale delle donne cisgender.

Avvertono, infatti, nelle note di regia, Billuart-Monet e Leblond: “Le donne che testimoniano sono tutte cisgender, vale a dire che la loro identità di genere è a proprio agio con il genere biologico. Le specificità della sessualità delle donne transgender o delle persone non binary non sono quindi particolarmente affrontate qui. Inoltre, quando usiamo la parola “donne” in questo contesto, ci riferiremo principalmente a donne cisgender, cioè donne che hanno genitali femminili e sono riconosciute socialmente come donne“.

Dalle loro stanze, davanti alla telecamera, si rivolgono alle due registe rispondendo senza filtri alle domande, tra esplorazioni intime, prime sensazioni, incontri e ostacoli. Tutte sono mosse, ciascuna a modo suo, dalla stessa ricerca: una sessualità appagante, libera ed egualitaria.

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