"It’s a Sin": la serie che mostra cosa significa subire una pandemia ignorati da tutti

La comunità omosessuale è stata decimata negli anni '80 da un virus di cui per troppo tempo non si è voluto parlare, tendendolo nascosto come fosse una vergogna: ora una miniserie arriva a dare giustizia ai tanti giovani morti senza neanche il conforto della compassione.

Aver guardato i 5 episodi di It’s a Sin nei giorni in cui ricorre l’anniversario dei primi casi di Covid-19 accertati in Italia può sortire un effetto straniante.

La serie tv britannica, ideata da Russell T Davies (a cui si deve anche Queer as Folk) e prodotta dalla Red Production Company, è andata in onda nel Regno Unito da Channel 4 (in Italia non è ancora stata comunicata la piattaforma su cui sarà distribuita). Acclamata da diversa critica come un piccolo capolavoro, segue la vita di tre gay giovanissimi nella Londra del 1981, città da lì a poco sconvolta dall’AIDS che decimerà la comunità omosessuale.

Roscoe, Colin e Ritchie scoprono la propria omosessualità attraverso un’iniziazione sessuale non sempre pacifica, fino alla presa di coscienza dell’esistenza di una malattia che sembra prendere di mira le minoranze, omosessuali, tossicodipendenti, emofiliaci: GRID, come era chiamata i primi tempi, Gay-related immune deficiency. Una malattia per anni ignorata perché “uccide solo quelli che devono morire”, come ha spiegato bene nel suo articolo su Internazionale Claudio Rossi Marcelli.

È una caduta vorticosa nell’inferno del virus che va dai primi casi sospetti di polmonite negli Stati Uniti (il New York Times fu il primo quotidiano a riportare una nuova sindrome, rilevata tra gli omosessuali di San Francisco e New York, il 3 luglio del 1981) per trasformarsi lentamente nel cancro dei gay (il Sarcoma di Kaposi, che spesso si manifesta con macchie rosso-violacee, è un tumore aggressivo che si verifica soprattutto nei soggetti con infezione da HIV) fino a diventare, dopo il 1985, la “malattia che ha ucciso Rock Hudson”; e poi il 1987: Lady Diana stringe la mano senza guanti ai pazienti davanti alle telecamere, la BBC mette in onda uno spot che invita a “non morire d’ignoranza”, l’AZT diventa il primo trattamento farmacologico contro l’HIV.

Alla luce di un anno tormentato da un virus come il 2020, che ha falcidiato una generazione, lascia esterrefatti, di fronte a It’s a Sin, vedere un’intera comunità abbandonata, dai governi e dai loro sistemi sanitari: giovani lasciati morire senza spiegazioni, senza speranze, senza sapere di cosa stessero morendo. Magari di psittacosi, un’infezione polmonare contratta dai pappagalli, anche da chi pappagalli non ha mai avuto.

Un crescendo di false informazioni – che oggi a 40 anni di distanza chiamiamo fake news e pensiamo nate con Internet – volte a confondere, nascondere, allontanare dall’opinione pubblica l’idea che quel virus potesse colpire non solo “chi aveva peccato”.

So I look back upon my life, Forever with a sense of shame, I’ve always been the one to blame, For everything I long to do, It’s a Sin”, cantavano Pet Shop Boys nel 1987. Una vergogna che hanno patito in troppi, segregati senza la consolazione dell’ultimo saluto di cui – forse – solo oggi capiamo in tutto il suo orrore con quella compassione che, sola, ci rende umani.

It's A Sin
Un’immagine di It’s a Sin (Fonte: Channel 4)

Perché vedere It’s a Sin

Se non bastasse la trama, che tiene attaccati dalla prima all’ultima puntata, i dialoghi perfetti, la recitazione di attori e attrici protagonisti e comprimari, a rendere It’s a Sin uno di quei prodotti tv che non si può assolutamente non vedere c’è una colonna sonora che raccoglie tutte le hit più celebri di quel decennio, dai Pet Shop Boys a Cindy Lauper, i Joy Division, Culture Club, Wham!, Queen, Kate Bush e tante tante altre.

Cinque puntate che arrivano a turbare i palinsesti sonnacchiosi della tv – insufflati di politicamente corretto e purificati fino alla noia più assoluta – con quella libertà sessuale e quell’energia rivoluzionaria che la gioventù ha avuto prima che l’AIDS arrivasse a sparigliare le carte, respingendo le forze più creative della società nel silenzio.

Emoziona, commuove, diverte e appaga esteticamente la serie di T Davies, come forse, sul tema, aveva fatto solo quel capolavoro che è stato – e resta – Angels in America, diretto da Mike Nichols nel 2003, con un cast all star, quando ancora i prodotti seriali erano considerati di seconda categoria.

It’s a Sin ha tante cose da insegnare a parecchie generazioni, dà di nuovo un senso pieno alla necessità dei Gay Pride, invita a non abbassare la guardia quando si deroga a pezzetti di diritti conquistati, affinché non ci si ritrovi di nuovo di fronte migliaia di giovani scomparsi per qualcosa di cui non va detto, perché è peccato.

La scheda della miniserie tv

Creata da Russell T Davies, It’s a Sin è una miniserie tv in 5 puntate da 45 minuti, distribuita da Channel 4 nel Regno Unito e da HBO Max negli Stati Uniti.

A interpretare i tre protagonisti, Roscoe, Colin e Ritchie, ci sono Omari Douglas, Callum Scott Howells e Olly Alexander. Accanto a loro, Lydia West è l’amica Jill. Un cameo è riservato a Neil Patrick Harris, esponente di spicco della comunità LGBTQ+ a Hollywood. Nel cast anche Stephen Fry, celebre dalle nostre parti per aver interpretato Oscar Wilde (poeta irlandese condannato a due anni di carcere per sodomia nel 1895) nel film Wilde del 1997. Fry, che ha dichiarato di apparire nella serie per rendere omaggio ai tanti amici morti di HIV, è stato scelto per interpretare Arthur Garrison, un parlamentare conservatore che rifiuta di riconoscere la propria omosessualità.

Nella colonna sonora della serie è presente una cover di It’s a Sin eseguita dai Years & Years, la band in cui milita Olly Alexander.

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