Sembra un niente, un modo di dire che non disturba nessuno tanto è ormai radicato nel linguaggio comune, non solo inglese-americano, ma anche italiano. “Hey Guys” è il saluto con il quale comunemente molti influencer si rivolgono ai propri followers su Instagram e TikTok, ma anche la frase con la quale si salutano gli amici in modo informale. I “guys“sono generici, universali. Ma non neutrali. Perché “guys” è il termine inglese per dire ragazzi e non fa rima con inclusività.

Il dibattito è aperto e molti esperti nel mondo stanno cercando di capire come sradicare questa abitudine linguistica errata per rappresentare meglio gli universi attualmente esistenti, che non identifica più il genere in maschio o femmina ma ha una stratificazione che deve essere normalizzata.

Da dove arriva l’espressione “Guys” e perché si è evoluta in formula di saluto

Come racconta lo SmithsonianMag, il termine Guy arriva da Guy Fawkes, personaggio poi ripreso nel cult movie V per vendetta.

Guy Fawkes era uno dei leader del plotone che ha provato ad assassinare, nel 1605, re James I.  Anni dopo che il suo piano era stato scoperto, il suo nome è diventato una sorta di simbolo della rivoluzione spesso usato dalla popolazione più povera e poi un modo di dire negativo, generalizzato fino a intendere “un gruppo di persone di sesso indistinto con brutte intenzioni”, fino al significato più morbido e universale che ha oggi.

Sembra difficile credere che un’etimologia così controversa sia poi diventato un modo di dire comune, allargato a qualsiasi tipo di persona. Ma in tanti, negli ultimi anni, si sono sforzati di trovare un’alternativa gender neutral, che sia valida per tutti e soprattutto inclusiva.

Quando generalizzare fa male all’inclusione

Le parole sono importanti ed “Hi Guys” è l’esempio perfetto di come un modo di dire si sia diffuso tanto da non sentirne più il peso specifico. La questione si fa importante, sociale ed etica soprattutto se ci riferiamo ad esempio donne transgender che non si riconoscono nell’appellativo universale “ragazzi”. E merita un’attenzione particolare perché è anche attraverso questi temi che si superano i gap legati al genere.

Questo perché anche il linguaggio – sebbene radicato – deve adeguarsi al mondo che evolve e alle persone che lo abitano, qualsiasi sia il genere in cui si riconoscono. Se non lo fa, c’è discordanza.

In un articolo dell’Atlantic la discussione sull’espressione “Hi Guys” si interseca anche con quelli legati alla parità di genere. Perché spesso nel mondo del lavoro e in particolare nell’industria tech americana, quel “guys” viene usato per appellare donne che lavorano nel settore. Che però sono donne, non uomini e spesso si sentono escluse anche a causa di questi equivoci linguistici dalla narrazione poco omogenea.

In Italia il fenomeno linguistico è meno radicato che in America, è vero. Ma è stato importato dagli influencer nostrani come formula di saluto e ora è di uso comune almeno nei contesti social. Eppure il dibattito che si apre a voler modificare un certo tipo di abitudine linguistica è molto più ampio dei soli confini geografici in cui una parola si usa. Ed è per questo che è fondamentale parlarne e capire quali possano essere le alternative.

Un po’ di sforzo per cambiare le cose lo si sta facendo ed è la tecnologia, che negli anni ha spesso avallato questo tipo di equivoci linguistici, a dare una mano. Un  gruppo di impiegati del governo americano ha impostato sull’app di messaggistica professionale Slack un messaggio automatico in risposta all’espressione “hi Guys” che risponde “Forse intendevi amici?“. Friends può essere una buona alternativa che risponde ai criteri di universalità e di inclusione che invece Guys non raggiunge.

E c’è di più: il dibattito si è acceso anche intorno ad espressioni anglofone tipo “chairman” (presidente) oppure “mankind” (umanità). Sono termini di uso comune su cui nessuno si porrebbe grandi problemi, che però non risultano inclusivi per il fatto che la parola “man” compare in modo insistente in entrambe, generalizzando e “mascolinizzando” qualcosa che si riferisce a persone che potrebbero non riconoscersi nel genere maschile. Già nel 2002 la sociologa Sherryl Kleinman si batteva per il tema col saggio Why sexist language matters sull’importanza di usare le parole giuste per un mondo che cambia e si evolve. E che ne ha una per tutti e non solo per “qualcuno”.

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