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Non ho mai creduto al potere dei tacchi. Mai, neanche per una volta, mi è passato per la testa di doverli indossare per impressionare qualcuno durante un colloquio di lavoro, ad esempio, o per darmi un tono durante un incontro importante. Mi piace pensare alle scarpe con tacco che ho in guardaroba come a un accessorio che a volte ho voglia di indossare, a volte no. Per piacere, non certo per obbligo. 

In parole povere non sono una fan di quella leggenda metropolitana per cui, se indossi un paio di stiletto, ti trasformi in un essere invincibile che tutti prendono sul serio, che sul lavoro non ha rivali e che ti alza una spanna sopra gli altri. Mi sento una donna indipendente, aperta, in carriera ed emancipata anche con le sneakers ai piedi. Nonostante lo stereotipo che vuole i tacchi sinonimo di eleganza, erotismo ed empowerment, non ho mai pensato che un paio di scarpe alte possa fare la differenza nella percezione che gli altri hanno di me.

Se non si fosse capito, la formula “potere uguale tacco” non mi convince e se penso a un modello femminile da cui prendere spunto per capovolgere lo stereotipo mi basta pensare alla mia ex capa Carola, una vera potenza in ufficio e fuori. La guardavo spesso dirigere riunioni con personaggi importanti senza lasciarsi scalfire dalle domande dei clienti maschi che spesso puntavano a ridimensionare la sua presenza durante il meeting. Riunioni durante le quali lei indossava sempre e solo look eleganti abbinati a un paio di sneakers. Non le ho mai visto ai piedi nulla di simile alle classiche decolletè con tacco che spesso si associano alle persone del suo rango, ma solo modelli colorati, comodi e stilosi di vario tipo, con una predilezione evidente per il brand americano Saucony Originals, che anche io ho finito per mutuare da lei.

Carola non si è mai lasciata intimidire, è salita di grado con tenacia fino a gestire un team variegato e numeroso senza mai mettere in pratica il motto “dress to impress” che spesso include tacchi assassini. In tutto questo non ha mai perso un briciolo di credibilità e inoltre mi ha sempre dato ottimi spunti per abbinare le sneakers non solo al denim o a completi sportivi (la combinazione più facile) ma anche agli abiti con pattern floreale o a look più eleganti. Carola ha ampliato le potenzialità del mio guardaroba senza neanche accorgersene, ma soprattutto mi ha insegnato a fregarmene dei dress code imposti e polverosi, leggi stereotipi: di questo le sarò sempre grata.

Lo stereotipo del tacco alto

Da sempre il tacco è sinonimo di seduzione. E a cristallizzare lo stereotipo negli anni ci si è messa anche la tv e il cinema, che spesso hanno raccontato la donne in carriera attraverso look sexy che emulano (guarda caso!) il completo maschile e tacco estremo d’ordinanza. Più sale in alto nella scala gerarchica dell’ufficio, più il tacco della protagonista diventa vertiginoso. E lo diventa perché ergersi al di sopra degli altri – leggi: i suoi colleghi maschi – è più facile con 10 centimetri artificiali di stacco. Come se essere brava non fosse già abbastanza.

Sarah Jessica Parker, indimenticabile Carrie Bradshaw di Sex and the City, una volta ha raccontato che al momento di girare i primi piani, il regista mi disse che, se preferivo, potevo togliermi i tacchi, perché, tanto, i piedi non si vedevano… Non l’ho mai fatto: l’espressione di una donna con i tacchi è diversa da quella di una donna senza”. Dissentiamo, cara Carrie: saresti stata indimenticabile anche volteggiando per le strade di Manhattan con un paio sneakers sporty-chic.

Quel tutù rosa che indossava l’attrice nella sigla di SATC avrebbe influenzato meno il costume e la moda degli anni 2000 se ai piedi avesse avuto un paio di sneakers con suola alta e lacci? La risposta è un no: l’immaginario collettivo intorno alla sua immagine non sarebbe cambiato affatto. Anzi, si sarebbe rafforzato intorno all’idea che una donna evoluta, in carriera e sicura di sé non ha bisogno definirsi aderendo a un cliché. Lo fa già da sola, con il suo lavoro e il suo stile.

Così la moda e i tacchi hanno obbligato le donne a patire per sembrare “più forti”

La storia della moda si è evoluta in un racconto di conquiste e di libertà. Di lembi di pelle scoperti, di centimetri in meno, di pantaloni anziché gonne. Ma è impossibile dimenticare che è iniziata con costrizioni e dolori, con l’idea che la bellezza “fa patire”. Basti pensare al corsetto, introdotto da Caterina de Medici nel 1500, in pochi anni diventato l’accessorio indispensabile per rendere una donna conforme agli standard di bellezza dell’epoca. Il corsetto ha subito nei secoli variazioni nella forma e nell’aspetto e nell’800 si è trasformato in un vero e proprio strumento di tortura, capace anche di modificare la disposizione degli organi interni femminili, come racconta il libro The Corset: A Cultural History del 2011 della storica Valerie Steele. 

E il tacco? Stesso inizio travagliato, stesso passato da “accessorio opprimente”. Nato come supporto per la stabilità dei soldati nel Quattordicesimo secolo, si è evoluto poi nell’accessorio indispensabile per sembrare più slanciati con Caterina de Medici, che il giorno del suo matrimonio, essendo alta solo 1 metro e cinquanta, ha optato per un paio di scarpe alte. Poi, un buco di 200 anni senza scarpe col tacco ci porta alla corte di Luigi XIV in Francia, quando diventa letteralmente virale. Uno status symbol, in pratica. Nota da ricordare: a quei tempi i tacchi li usavano solo gli uomini, mica le donne, che invece optavano per modelli bassi e comodi, come cultura e abitudini del tempo imponevano. 

Alla corte del Re Sole, come riporta la ABC, mettere i tacchi senza permesso era l’equivalente di una sentenza di morte, perché solo il re poteva decidere chi poteva indossarli e chi no. Ma proprio per uniformarsi e acquisire per proprietà transitiva un po’ di quel potere che ai tempi era solo del mondo maschile, le donne hanno cominciato a indossare i tacchi (e anche a rendere più androgini e gender fluid i loro abiti) rendendoli a tutti gli effetti un elemento femminile.

Il tacco è diventato sexy in epoca vittoriana, quando tutto ciò che era seducente ed erotico era anche proibito. Sono proprio di quell’epoca i primi scatti di modelle in pose osè, nude ma con tacchi alti ai piedi. Una celebrazione della femminilità in un periodo in cui essere donne non era sinonimo di libertà.

Il tacco oggi: l’accessorio sexy, potente, da “girl boss”

Dall’epoca vittoriana il tacco non ha perso di vista i riferimenti al mondo della seduzione, come se oltre a essere accessori esteticamente piacevoli avessero anche un altro potere: quello di rendere (più) femminili le donne. In quest’ottica però, si segna di fatto una sorta di mancanza: quella dell’altezza, ad esempio, il fatto di essere poco slanciate. Dai fotografi dell’800 che ritraevano le donne nude con solo scarpe alti addosso è rimasto lo spirito erotico dello stiletto associato al sesso, alla lascività.

Sul lavoro, poi, essere una “girl boss” equivale a vivere sui tacchi. O almeno così raccontano il cinema, la tv e anche un certo stereotipo che mette la donna al centro dello “sguardo maschile”, come spiega la teoria femminista introdotta da Laura Mulvey nel 1975. In questo senso le donne si trasformano in meri oggetti sessuali osservate da uno sguardo maschile che crea asimmetrie tra i generi. Per questa teoria, le donne vengono definite dal proprio aspetto fisico o da come si vestono. Ed è facile capire di cosa si parla guardando proprio la tv. Più la donna è in alto, in carriera, potente, più vola su stiletto altissimi. Le sneakers o le scarpe da running vengono relegate al momento in cui la giornata lavorativa finisce, i tacchi vanno in borsa e le donne che lavorano nei Financial District delle metropoli mondiali percorrono la strada verso casa in modo confortevole, più agevole e più sano con delle scarpe basse ai piedi, come in un gesto di liberazione che prima non era permesso.

In alcuni paesi del mondo indossare il tacco alto non è solo una legge non scritta del mondo del lavoro, ma un vero e proprio obbligo formale. Norma contro la quale le donne giapponesi si sono rivoltate, iniziando il movimento che si chiama #Kutoo che punta a liberare le donne dalla schiavitù dei tacchi alti, soprattutto quando questi non sono una libera scelta ma una costrizione. Yumi Ishikawa ha lanciato un tweet e una petizione su Change.org nel 2019 (che ora conta quasi 35 mila firme) per rivendicare il suo diritto a indossare sneakers o comunque scarpe comode per andare al lavoro. Dopo aver risposto a un annuncio che le imponeva almeno un tacco 5 per un impiego come hostess a un evento, la Ishikawa ha deciso di dire basta. E ha lanciato un hashtag che gioca con le parole giapponesi “kutsu” (scarpe) e “kutsuu”, che invece vuol dire dolore per dire a tutti che essere costrette a indossare i tacchi per andare al lavoro non è divertente, soprattutto se arriva come imposizione dall’alto.

La rivincita delle sneakers: l’emancipazione femminile passa (anche) per la moda

La storia della moda è un’altalena di cambiamenti, dicevamo. Un’evoluzione che ha portato, negli anni, a liberarsi di cliché e imposizioni che non solo cercavano di relegare le donne su un gradino inferiore della società attraverso gli abiti, ma che spesso erano dolorose. Basti pensare all’introduzione dei pantaloni, che sono diventati  un capo femminile (non senza scandalo e resistenze!) per dare alle donne la possibilità di cavalcare senza l’impedimento di abiti ingombranti o in posizioni pericolose (come quella “all’amazzone”).

Perché, non ce n’è, l’emancipazione femminile, è innegabile, passa anche per la moda.
Liberare il corpo delle donne da costrizioni di varia natura – truccarsi, coprirsi di più o di meno, i corsetti, i tacchi, il reggiseno, le lunghezze delle gonne e delle minigonne -, lasciando libera scelta alla singola persona, è un passo fondamentale dell’emancipazione.

Troppo spesso, in passato e ancora oggi, l’abito ha fatto il monaco (o la “vera donna”). Per fortuna sempre meno.
E oggi questa libertà ce la siamo conquistata anche con le sneakers, da mettere ai piedi in qualsiasi occasione, formale, sportiva, elegante o casual e non solo se si pensa che sono diventate un vero e proprio oggetto culto e di espressione della propria personalità.

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Le scarpe da running si sono fatte largo prepotenti nella moda, e non solo in quella sportiva. Sono nate come accessorio di rottura e ribellione negli anni ‘50, quando l’attore James Dean le indossava abbinandole alla giacca di pelle e al suo sguardo magnetico. Poi si sono trasformate nelle scarpe di tutti, nei modelli lifestyle e versatili come quelli di Saucony Originals che la mia ex capa Carola adorava, perché le sneakers si mettono non solo per essere comodi ma anche per essere cool. Segnando, di fatto, un altro punto per la libertà di vestirsi e indossare ciò che si vuole.

Indossare scarpe sportive sul lavoro, per un aperitivo, per un incontro importante non vuol dire non avere a cuore il proprio aspetto, come spesso si pensa. Non è un modo per far vincere la comodità sull’estetica ma può decisamente diventare uno strumento per rafforzare la propria personalità, infischiandosene degli stereotipi e seguendo solo i dettami di uno stile: il proprio, l’unico che conta davvero.

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Saucony è uno dei marchi più storici nel mondo delle sneakers. La collezione Saucony Originals rilegge il dna del brand in chiave contemporanea: un patrimonio importante fatto di storia, gloria e stile. Colore, versatilità, comodità e leggerezza sono i tratti distintivi di ogni modello. L’onda e i tre punti sul river laterale simboleggiano il fiume Saucony dove tutto ebbe inizio nel 1898 e rappresentano i valori chiave del marchio: autenticità, unicità, qualità.