Un vecchio adagio recita che le forme canoniche per il corpo femminile debbano corrispondere alle misure 90-60-90; né un centimetro di più né uno di meno, per ottenere l’ambita perfezione fisica.

I cliché sui modelli di bellezza sono cambiati nel tempo e oggi possiamo “vantare” un lento miglioramento nel giudicare bello o brutto un corpo femminile, tanto da indurre anche brand come Dove e H&M a celebrare le fattezze del “gentil sesso” in ogni sua declinazione; di certo da parte delle donne c’è una maggiore consapevolezza nel voler essere se stesse indipendentemente dalla propria taglia di abbigliamento. 

Non ci dimentichiamo, però, che in un passato non troppo lontano da noi, i criteri di giudizio sono stati molto severi tanto da generare non poche critiche e rimostranze sociali, laddove si sono imposti canoni che esaltavano in maniera smaccata corpi eccessivamente filiformi, tali da generare dei veri e propri complessi anche in chi poteva vantare un peso forma nella norma. 

Se è vero quanto detto finora, è altrettanto veritiero ammettere che si fa ancora fatica ad accettare come canone estetico positivo un corpo grasso o visibilmente in sovrappeso, soprattutto in contesti nei quali la perfezione fisica è un requisito fondamentale: come, per esempio, le sfilate di moda o un contest per aggiudicarsi il titolo della “più bella del reame”.

Voglio una vita a forma di me (Dumplin’ il titolo originale)di Anne Fletcher e disponibile su Netflix Italia è una commedia che parla proprio di questo: ossia dei cliché legati alle ragazze XXXL che non possono competere in un concorso di bellezza.

Ad avvalorare l’atto rivoluzionario di Willowdeen (Danielle Macdonald) si aggiunge il rapporto conflittuale con la madre Rosie (Jennifer Aniston) ex reginetta di bellezza e membro costituente dell’annuale competizione della cittadina del Texas in cui è ambientato il film. Ad aiutare la giovane protagonista nel suo intento all’insegna del politicamente scorretto, ci sono il ricordo della zia Lucy che l’ha cresciuta e le ha insegnato a ridere e ad amare in grande come le sue forme e un gruppo di compagne di scuola che sono puntualmente emarginate dalla cerchia dei coetanei perché “ciccione” o androgine.

Il tutto accompagnato da una colonna sonora con al centro Dolly Parton, attrice e cantautrice country che negli anni ’70 ha rotto gli schemi tradizionali americani con la sua bellissima voce e il look appariscente e decisamente fuori le righe. Malgrado la sceneggiatura sia un po’ debole e troppo buonista per i nostri gusti, il film offre momenti ilari e numerosi spunti di riflessione, soprattutto sul tema dell’accettazione di sé che è sempre un atto molto complicato da realizzare, specie se di mezzo c’è il confronto con la nostra impeccabile madre ossessionata dal peso e dalle apparenze e un rapporto ostile mai realmente affrontato.

Sì, perché prima di intraprendere qualsiasi strada provocatoria che abbia l’intento di cambiare il mondo, la rivoluzione primaria dovrebbe scattare dentro di noi e darci uno sguardo nuovo nei confronti di noi stessi e di chi ci circonda; forse se facessimo  davvero così,  tutti noi potremmo veramente indossare dei costumi da bagno, noncuranti di chi ci guarda, come fatto dalle nostre protagoniste, che recitano “ogni corpo è fatto per indossare un costume” e scegliere cosa e come vogliamo essere.

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