Pianto, riso, tenerezza, rabbia, senso d’impotenza, rispetto, ammirazione; soprattutto riso, di cuore, di pancia, di testa. Abbiamo provato tutto questo e molto di più guardando Le Invisibili, opera del giovane ma bravissimo Louis-Julien Petit, distribuito in Italia da Teodora Film e ispirato al libro di Claire Lajeunie, “Sur la route des invisibles: Femmes dans la rue”.

Un racconto ambientato nella periferia parigina ma allocabile in qualsiasi altra grande città dove a essere protagoniste e dar voce a tutta la storia sono state Edith Piaf, Brigitte Macron, Lady D., Beyoncé e tante altre donne senza fissa dimora che hanno scelto pseudonimi famosi per preservare la propria privacy e che quotidianamente si ritrovano davanti al cancello di un centro di accoglienza per una doccia e un pasto caldo, portando con sé tutti i loro averi, la loro vita e la strada in cui vivono come se fossero una zavorra in continuo movimento, nella speranza per molte di loro, di un reinserimento nella società di serie A.

Le signore che abbiamo incontrato in questa poetica narrazione non sono vere attrici, sono davvero senzatetto e con il loro sorriso senza denti e le tante rughe dei loro volti hanno deciso di mettersi in gioco e di farsi guidare dall’abilità del brillante regista che, dopo aver vissuto un anno nei centri di accoglienza, ha affiancato loro quattro interpreti professioniste nei panni di splendide e pazze assistenti sociali: la combattiva Audrey (Audrey Scapio), la decisa boss Manu (Corinne Masiero), la dolce Hèléne (Noémie Lvovsky) e la giovane Angélique (Déborah Lukumuena).

Un cast riuscitissimo che, pur trattando di temi sociali molto seri, ci ha trasmesso luminosità a partire dalla capacità stessa delle protagoniste di ridere di sé: e questo è già un primo, grandissimo insegnamento che troppo spesso dimentichiamo.

La storia prende le mosse da quello che, purtroppo, succede piuttosto di frequente in Francia e non solo: la municipalità sospende i fondi per il centro di accoglienza perché le percentuali di reinserimento e di recupero delle barbone sono troppo basse.

Le assistenti sociali, però, non si arrendono e creano clandestinamente un laboratorio di recupero con workshop formativi e un dormitorio affinché le loro assistite possano rimettersi davvero in sesto e avere una seconda possibilità: unica e insindacabile regola è che partecipa solo chi sia realmente motivata a reinserirsi nella società.

Come a ribadire che l’assistenzialismo fine a se stesso non porta a nulla, anzi rischia di creare più danni che benefici e che l’atto di “disobbedienza civile” mostrata da tutte è solo un modo per dimostrare resilienza e reale voglia di riscatto dinanzi all’incapacità delle società moderne di fronteggiare alle necessità dei più bisognosi: non con la beneficienza, il volontariato e una frettolosa e superficiale lavata di coscienza, ma con i fatti, con l’ascolto e con la creazione di opportunità che restituiscano dignità a chi è stato umiliato e dimenticato dalla vita, ma che, alla fine, ha deciso di riprendersela.

E il sorriso donato da tutte è stato una carezza sul cuore tra lacrime, risa, rabbia, rispetto, senso di impotenza e di ammirazione.

Grazie a tutte quelle che non si arrendono mai.

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