In una calda notte di luglio, nel 1860, una goletta di nome Clotilda attraccò a Mobile Bay, in Alabama. Trasportava illegalmente un carico di schiavi, come avevano fatto tante altre imbarcazioni prima di quel giorno, ma il motivo per cui entrò nella storia è un altro. Ufficialmente, fu l’ultima a farlo e tra quei 116 uomini e donne c’era anche Cudjoe Kazoola Lewis, passato alla storia come l’ultimo sopravvissuto alla tratta di esseri umani portata avanti per secoli tra Africa e Stati Uniti.

Cudjoe Kazoola Lewis, nato nel 1840 circa nella tribù Yoruba, oggi corrispondente al Benin, apparteneva a una famiglia numerosissima. Nella primavera del 1860, quando aveva solo diciannove anni, venne fatto prigioniero da un’altra tribù e portavo verso la costa. Lì, insieme agli altri sventurati compagni di viaggio, venne venduto e costretto a salire sulla Clotilda.

In quel periodo il commercio di persone era già stato vietato da almeno mezzo secolo, ma la storia di Cudjoe è la prova di come gli Stati Uniti avessero continuato a infrangere la legge. Per evitare di essere scoperti, gli schiavi venivano infatti costretti a scendere di notte e poi nascosti nelle paludi, in condizioni terribili.

Se non fosse stato per l’antropologa Zora Neale Hurston, oggi non potremmo conoscere la storia di Cudjoe Kazoola Lewis. Fu proprio lei, dopo sessant’anni dall’abolizione della schiavitù, a incontrarlo: a quel tempo era considerato l’ultimo sopravvissuto di quel triste carico umano, anche se in seguito venne identificata anche una donna, conosciuta come Redoshi.

Zora intervistò più volte Cudjoe e scrisse un libro sulla sua storia, ma l’America del 1931 evidentemente non era pronta o non voleva ascoltare la sua voce. Come racconta il Telegraph, il libro è uscito solo nel 2018 con il titolo Barracoon. L’ultimo schiavo. Il racconto inizia dal momento della cattura, quando venne strappato ai suoi cari, e racconta tutti quei mesi passati in mare insieme a estranei, che con lui condividevano un destino di miseria.

Il momento della separazione, una volta arrivati in Alabama, fu altrettanto difficile, visto che ormai tra di loro si era creato un forte legame. “Ci dispiacque molto essere separati uno dall’altro”, spiegò Cudjoe, ricordando le lacrime e poi il viaggio verso piantagioni diverse.

Il nostro dolore era così forte, da sembrare insopportabile. Pensavo sarebbe stato meglio morire nel sonno, quando sognavo mamma.

Giunto nella piantagione a cui era destinato, si rese conto di come nessuno capisse la sua lingua. Non poteva spiegare da dove venisse o capire la situazione.

Non sapevamo perché ci avessero portato via dal nostro paese per lavorare così. Tutti erano strani. Volevamo parlare con gli altri compagni di colore, ma non sapevamo cosa dire.

Cudjoe si considerava fortunato perché il suo padrone, Jim Meaher, era meno crudele del fratello Tim, che picchiava selvaggiamente i suoi schiavi. Poi, nel 1865, arrivarono dei soldati e gli dissero che era libero e non apparteneva a nessuno. Chiese a quello che ormai non era più il suo padrone di dargli della terra in cambio, ma non ricevette nulla.

Insieme ad altri ex schiavi, iniziò a lavorare duramente per la costruzione della ferrovia e dopo qualche tempo acquistarono un appezzamento proprio da chi li aveva sfruttati. Lo chiamarono Africatown e provarono a ricostruirsi una vita, secondo le tradizioni della loro terra d’origine. Cudjoe sposò Abila e la coppia ebbe sei figli, a cui venne dato sia un nome africano che uno americano.

Non fu comunque una vita semplice: solo uno dei suoi figli sopravvisse a malattie e incidenti. Il più giovane, che si chiamava come lui, venne addirittura ucciso da un poliziotto. Ghettizzati e scherniti, gli ex schiavi della Clotilda andarono incontro a un altro tipo di inferno. Cudjoe morì nel 1937, dopo aver dedicato diversi anni a raccontare la sua storia a chi voleva ascoltarla.

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