Vietato trascurare i "Momenti di trascurabile felicità"

Soprattutto ci meritiamo davvero solo momenti di trascurabile felicità? Non vale la pena, per rispetto di noi stessi e di chi abbiamo accanto, di prendere il toro per le corna e uscire dallo stagno del nostro malessere, rispondere un bel “sì, ce l’ho con te” o un “non ti sopporto più” e pretendere che la felicità sia per noi un diritto e anche un dovere?

Sono davvero trascurabili i momenti di felicità della nostra vita?

Soprattutto li sappiamo riconoscere nel mare magnum della quotidianità, fatta di mille piccoli, grandi, impegni dove il tempo sembra non bastare mai? Lavoro, traffico, figli, casa da sistemare, spesa, cena e quelle terribili lancette dell’orologio che ci ricordano in continuazione che il tempo è sempre troppo poco rispetto a tutto quello che dobbiamo ancora fare. Che vorremmo ancora fare.

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Arriviamo a sera e ci sembra di non aver concluso niente, di esserci affannati freneticamente da quando ci siamo svegliati solo ed unicamente per aver portato a casa un’altra giornata, fatta di cosa non lo sappiamo nemmeno noi.

C’è chi non può fare a meno di essere inquieto dinanzi a tutto questo, di sentire che gli manca il fiato, di aver bisogno di un diversivo che porti una ventata di novità e lo elevi da una vita media, di rifugarsi nei sogni, di condire una routine stancante e anche noiosa con un pizzico di trasgressione e qualche relazione extraconiugale che inietti vitalità, autostima e permetta di affrontare di nuovo una giornata in cui a comandare sono doveri e responsabilità.

E c’è, invece, chi affronta tutto questo con grande spirito di abnegazione e sceglie di farlo, supplendo spesso e volentieri alle mancanze affettive di chi ha accanto, non volendo vedere le carenze dell’altra persona, perché la vita di tutti i giorni è fatta così, di lavoro, traffico, spesa, figli e tutto ciò che comporta la gestione di una famiglia e di una casa, senza porsi troppe domande esistenziali, senza andare mai troppo a fondo, un po’ per pigrizia, un po’ per paura, un po’ per stanchezza. In entrambi i casi per non screditare alibi che fanno comodo, anche se non si è felici.

Paolo (Pif) e Agata (Thony), protagonisti di “Momenti di trascurabile felicità”, ultimo film di Daniele Luchetti distribuito da 01 Distribution e tratto dai due libri omonimi (eccezion fatta che in un titolo a felicità si sostituisce “infelicità”) di Francesco Piccolo, personificano proprio questi due caratteri opposti nell’affrontare la vita di tutti i giorni, finché nella loro esistenza non arriva uno scossone che spezza il consueto trantran.

Paolo muore in un incidente stradale che lui stesso si è andato a cercare, attraversando un incrocio con il rosso come faceva tutti i giorni, convinto della sua abilità e velocità di centauro. Scagliato a terra ma con l’anima finita in Cielo, in uno stanzone adibito a check-in per gli estinti in attesa dell’ultima e definitiva sistemazione, gli viene concesso di tornare sulla Terra per vivere la sua ultima ora e 32 minuti e spendere questi ultimi istanti nel migliore dei modi, accompagnato da uno stravagante guardiano e angelo custode (Renato Carpentieri).

Da qui comincerà per lui un viaggio a ritroso nel tempo attraverso il quale emergerà tutta la superficialità e l’egoismo che lo hanno sempre contraddistinto, come persona, uomo e padre di Aurora e Fabio (Angelica Alleruzzo e Francesco Gianmarco). Tale percorso, però, tocca anche Agata, la compagna di una vita, la donna che per sua stessa ammissione “c’è sempre stata, anche quando non era fisicamente presente”.

Lei è la persona che è sempre stata consapevole dei suoi limiti, dei suoi difetti, delle sue infedeltà, della sua mediocrità come padre e anche come compagno ma che lei ha scelto di tenere com’è, di coccolarlo e accudirlo come fosse il terzo figlio, di perdonargli certe mancanze perché a volte è più facile andare avanti così, in una sorta di limbo senza troppi terremoti emotivi piuttosto che rispondere sinceramente a un troppo sovente “Ce l’hai con me?” domanda di rito che lui le poneva ogni volta che si rendeva conto di aver sbagliato o temeva di essere smascherato.

A tratti nella nostra vita è più semplice nascondere la testa sotto la sabbia, magari concedere anche a noi stesse un istante “extra” che ci faccia battere il cuore o risvegliare l’ormone per poi ritornare nei nostri ranghi e tenerci ben strette quel sottile malessere e quella familiare insoddisfazione piuttosto che prendere di petto le situazioni e affrontarle una volta per tutte.

Indipendentemente dal finale che fa tanto favola dei giorni nostri e rende tutta la narrazione un po’ sommaria e piatta, il film ci ha suscitato con una certa tristezza una serie di riflessioni: la prima è che, anche quando siamo molto presenti a noi stessi, non sempre abbiamo piena coscienza e consapevolezza di quei piccoli, grandi istanti di pura felicità, perché siamo fagocitati da mille cose, molte inutili, che distolgono la nostra attenzione da quello che veramente conta.

La seconda ce la fornisce proprio una frase del film, ossia che i momenti di felicità occorrono nella vita per spezzare una normale monotonia a cui tutti siamo destinati e l’indolenza con cui conduciamo la nostra esistenza è una sorta di stato a cui ci dobbiamo abituare perché il volere essere davvero felici consta troppa fatica, tanta energia e, forse, anche parecchio dolore. E allora se è proprio così che deve essere, sono davvero marginali quegli attimi di gioia che ci alleviano da cotanta mestizia?

Soprattutto ci meritiamo davvero solo momenti di trascurabile felicità? Non vale la pena, per rispetto di noi stessi e di chi abbiamo accanto, di prendere il toro per le corna e uscire dallo stagno del nostro malessere, rispondere un bel “sì, ce l’ho con te” o un “non ti sopporto più” e pretendere che la felicità sia per noi un diritto e anche un dovere?

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