Come si spiega a una persona che lavorare per un femminile non significa passare le giornate a parlare di rossetti, trucchi di bellezza, scarpe e degli x modi per essere sempre impeccabili in ogni situazione?

E come si spiega al tuo editore che raccontare di donne oggi non significa più redarre i decaloghi per essere la fidanzata, mamma, amante perfetta e gnocchissima?

Lo si spiega! Non uno, non due, ma mille volte, con pazienza. E poi si ricomincia ancora da capo.
Lo si spiega! E poi tocca pure spiegare che no, non sei tu né l’alieno idealista, né la femminista isterica convinta che le donne debbano essere raccontate e vogliano essere raccontate in un modo diverso, perché sono altro esono molto di più: è proprio così.

Poi arriva il responsabile SEO, quella famigerata dottrina/ dittatura di zio Google per cui sai che, al netto della spinta social, l’articolo che hai scritto sarà indicizzato e, quindi, letto da qualcuno, solo se si posizionerà per una delle chiavi che la gente cerca sul web.
E quando arriva già sai perché fa gli occhi grandi, quasi come fosse lui a doverti chiedere scusa se le keyword sono del tenore di “come avere una pelle perfetta“, “come essere perfette a casa”, “come dimagrire in una settimana”, etc…

Tu le leggi, incassi, hai un attimo di depressione in cui ti sembra tutto inutile. Argomenti sul fatto che il punto sta proprio qui, nella necessità di fare cultura, nel riscoprire il ruolo educativo del giornalismo. Ma, giustamente, dall’altra parte ti vengono chiesti i numeri.

E, attenzione, non perché l’editore sia un maschilista retrogrado e misogino, no. Ma perché, come disse Humphrey Bogart:

È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente. Niente.

Non facciamo i duri e puri. Lo sappiamo tutti: una testata giornalistica non vive di sola vocazione e ispirazione. Perché esista una rivista, online o cartacea, che sia un luogo in cui fare cultura e parlare di temi importanti, devono esistere i presupposti di sostenibilità economica perché il sistema stia in piedi. E spesso i contenuti trash o nazional popolari sono, lo sappiamo tutti, ben più redditizi di altri.

Recentemente la blogger e influencer Simona Melani di The Wardrobe ha commentato in alcune stories un infelice articolo uscito su Glamour. Ma prima di fare partire crociate contro Glamour in cui, come Simona stessa ha sottolineato, lavorano giornaliste tutt’altro che frivole e capaci, proviamo a seguire un ragionamento.

Simona ha ragione:

I giornali ci trasmettono questa pressione sociale di essere sempre belle, perfette e raffinate. Io ho il diritto di essere una merda a casa mia e anche fuori, se mi va, senza sentirmi in colpa per questo. Perché quello che traspare per una ragazza che legge certi titoli e certi articoli è il dovere di essere sempre bella di non mollare mai il colpo.

E più avanti

Non può essere che nel 2019 ci siano ancora giornalisti e redazioni che scrivano cose del genere.

No, non può essere. Ha ragione lei anche quando dice che, articoli di questo tenore, che nulla hanno a che vedere con la libera scelta e il diritto di prendersi cura della propria persona e sentirsi bene, ricordino certi manuali degli anni Cinquanta.

Nei manuali della moglie perfetta degli anni Cinquanta c’era scritto che la donna si doveva alzare mezz’ora prima del marito, truccarsi, togliersi i bigodini, pettinarsi, mettersi una camicia da notte sexy, ricoricarsi e, quando il marito si svegliava, si illudeva che la moglie fosse un angelo veniva dal cielo.
Questa cosa comportava che le donne andavano a dormire truccate e, solo quando il marito si addormentava e russava, si alzavano, andavano in bagno, si struccavano, si facevano la maschera e si mettevano i bigodini e ogni giorno c’era questo loop. Perché bisognava sempre essere belle e raffinate, specialmente anche a casa.

Progetto di legge per vietare alla donne di imparare a leggere

Ma la realtà è quella che Simona Melani stessa racconta e, cioè, che con ogni probabilità un articolo di questo genere nasce dall’esigenza di conquistare un posto in quella famigerata “classifica” SEO su keyword in cui è facile cadere nello stereotipo.

Questo vale come scusante,? No. Ma la verità è che tutti i femminili sono pieni di questa roba. Quindi, questo vuol dire che mal comune mezzo gaudio e che dobbiamo farcene una ragione? Neppure.
Significa semmai che è necessario parlarne, parlarne, parlarne ancora e non cedere alla tentazione di semplificare e accendere i roghi sotto alla testata o alla giornalista di turno.
Il rischio è troppo alto ed è quello che tutto il lavoro buono fatto da una testata – Glamour in questo caso, ma potrebbe esserci chiunque altro – venga gettato a mare.

Un tempo Roba da Donne, quando ancora non era testata giornalistica e non vi era l’attuale redazione, pullulava di articoli come questo.
Negli ultimi due anni, lato SEO, abbiamo e stiamo facendo un lavoro immane per andare a scovare contenuti di questo tenore e riscriverli, per dare loro un contenuto che sia valido al di là del suo raggiungere lo scopo di un posizionamento.

Ed è un lavoro lungo e antieconomico, ma necessario ed è forse l’unica via possibile per conciliare i profitti con contenuti di qualità: riscrivere contenuti reputati inaccettabili ma già posizionati, significa spendere soldi e risorse, che potrebbero essere impiegati altrove, su un obiettivo economico già raggiunto e, in alcuni casi, rischiare di perdere posizioni.

L’altra verità è che ognuna di noi si è sentita non una, ma mille volte, non abbastanza carina, perfetta, elegante, desiderabile, raffinata, etc. e fare leva su queste debolezze, spesso, funziona meglio di qualsiasi contenuto di qualità.

Perché il nostro essere donne è imbevuto di quel perenne senso di inadeguatezza che non ci deriva da un’innata paranoia femminile, ma da un imprinting culturale per cui le bambine sono principesse graziose, educate, che devono stare composte, sorridere, non sciupare i bei vestitini di tulle; spesso redarguite o quanto meno colpevolizzate quando seguono i coetanei maschi in attività ben più divertenti tipo rotolarsi a terra o correre noncuranti delle ballerine bianche o rosa confetto che qualcuno si ostina a mettere loro e non per il tempo della foto perfetta in stile Instagram:

Una signorina non fa queste cose!

Poi, per fortuna, si diventa grandi e si capisce che questa cosa è una follia ma, va da sé, l’educazione mica te la lavi via sotto la doccia: è più simile a un tatuaggio, che a un pennarello e quindi un po’ te la porti addosso.

E questa cultura quasi inconsapevolmente misogina a volte se la portano addosso anche alcune giornaliste, collaboratrici, stagiste, che poi magari sono le stesse che su Instagram perseguono l’obiettivo del feed perfetto e comunque mai all’altezza delle tante immagini di perfezione che scrolliamo e tappiamo ogni giorno.

E allora parliamone di queste cose, non per puntare il dito su Glamour o su qualche collega, ma per trovare insieme nuovi modi di raccontare le donne senza rinunciare alla SEO e ai numeri, ché bisogna pure scampare e di gloria e bei contenuti non letti non scampa nessuno.

Proviamo a ribattere, a chi continua a propinarci questo genere di cose, che un’altra strada è possibile: si tratta di pensare alle keyword SEO d’ispirazione maschilista e stereotipata come occasioni per fare traffico, cultura e ribaltare i vecchi cliché che fanno male a tutti. Ci vuole più impegno e più fantasia, bisogna uscire da vecchi ma per nulla rassicuranti schemi mentali: ma è tempo di parlare di donne in un modo davvero diverso e, comunque, anche lato professionale, è molto più appassionante.

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