Da ragazzina cresciuta in un piccolo paese di provincia, dove tutti si conoscono e sanno tutto di tutti, c’erano due affermazioni in grado di farmi andare fuori di testa, e non per malriposta irruenza adolescenziale.

La prima era “cosa penserà la gente?”.
La seconda era la convinzione incrollabile di mio nonno che la morte di una persona cancellasse automaticamente tutte le sue colpe.

Non si parla male dei morti.

Per lui era un dogma di fede, ampiamente condiviso dalla comunità. Il morto poteva aver commesso i peggiori misfatti, ma questi cadevano in prescrizione una volta che questi era finito sottoterra ed era un affronto il rivangare questioni di chi ormai era passato a un livello giudizio di ben altro spessore rispetto a quello terreno.

Sarà! Ma a me questa cosa che una carogna diventasse automaticamente un’anima da compiangere e di cui ricordare solo il bene fatto in vita ha sempre mandata fuori di senno.

Così, quando nei giorni scorsi ho trovato un articolo di Lara Witt, editor-in-chief di Wyv, dal titolo “Stop loving oppressors: anti-condolences per Karl Lagerfeld”, ho provato un sincero moto di gratitudine.

L’ho inviato, provocatoriamente, a una serie di contatti che non avevano mancato la celebrazione poetica del momento e che ho ragione di credere, esclusa la possibilità che questi siano fan di tutti i morti celebri – cosa che imporrebbe più di un gesto scaramantico -, non sapessero nulla di Karl Lagerfeld finché il suo nome non è finito in trending topic.

Vogliamo parlare di Karl Lagerfeld. Parliamone. 

E se vogliamo entrare nel poetico mondo delle celebrazioni umane, parliamo anche del Karl Lagerfeld uomo, per cui l’anoressia non era un problema del mondo della moda:

In Francia c’è una grande percentuale di ragazze in sovrappeso e meno dell’uno per cento sono magre. Quindi parliamo del 25 percento che ha un problema di peso o è sovrappeso. Non è necessario discutere di quel meno uno per cento. L’anoressia non ha nulla a che fare con la moda […]
Non penso che sia un argomento da discutere.
da Jezebel

Parliamo di quello che disse che:

Nessuno vuole vedere donne formose.

Parliamo di quando, rispetto al movimento MeToo, dichiarò:

Una ragazza si è lamentata che (il direttore creativo della rivista Interview, ndr) ha provato a tirarle giù i pantaloni e lui viene immediatamente scomunicato da una professione che fino a quel momento lo aveva venerato. È incredibile. Se non vuoi che i tuoi pantaloni vengano tirati giù, non diventare una modella! Unisciti a un convento, ci sarà sempre un posto in convento. Stanno reclutando.
da Numéro

O parliamo del Lagerfeld che, in una storica intervista disse che sarebbe una cosa difficile “avere una figlia brutta”, precisando poi

Se fossi una donna, mi piacerebbe avere molti bambini. Ma agli uomini, non credo.
da Interview Magazine

Parliamo di quello che, in una trasmissione televisiva francese, parlando della politica di Angela Merkel, che aveva accolto circa un milione di immigrati, disse:

Non si può – anche se ci sono decenni tra di loro – uccidere milioni di ebrei in modo da poter portare milioni di loro peggiori nemici al loro posto.

E, per tornare alle affermazioni misogine, parliamo anche di quando di Pippa Middleton disse:

Non mi piace la sua faccia. Dovrebbe mostrare solo il suo sedere.

E di Heidi Klum:

Non è un modella da passerella. È semplicemente troppo pesante e ha un busto troppo grande. E sorride sempre così stupidamente. Non è d’avanguardia – è commerciale!

Parliamone. E distinguiamo molto bene l’artista e l’uomo.
Parliamone e scegliamo le nostre battaglie.
Perché o si combattono i modelli irrealistici e insani del fashion system, e allora il genio non può essere alibi a responsabilità e discriminazioni; o si coltiva il culto dell’artista cui tutto è concesso, ma allora non si condividano poi le battaglie che questi deridono.

È solo questione di coerenza. Ognuno trovi la propria. Ma un piede in due scarpe, su questo aveva ragione nonno, proprio non si può.

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