Si chiamavano Eloisa, Enrica, Liliana. Per il mondo erano solo le “donne cancellate”, rinchiuse nei manicomi e alienate dalla vita, fatte scomparire, nascoste al mondo e con identità eliminate dalla società.
Proprio le loro vite spezzate, e il dramma della loro malattia mentale, a volte vera, altre solo presunta, sono il tema a cui è stata ispirata la mostra Donne cancellate, aperta dal 27 ottobre al 18 novmbre presso il Broletto di Como, antica sede del comune e oggi palazzo dedicato appunto alle esposizioni.

Le immagini le ha raccolte il fotografo Gin Angri, il materiale proviene dall’archivio dell’ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como; curata dal critico Roberto Mutti, la mostra è stata resa possibile dalla compartecipazione tra l’Associazione Oltre il giardino Onlus, l’Assessorato alla Cultura e la Famiglia di Giannino Brenna, di Graziano Brenna e della Fondazione Bertolaso-Totaro-Sponga.

100 le fotografie esposte in un percorso che scuote i nervi, che entra nella pelle e rimane a fondo, nella mente: si va dalle cartelle cliniche che partono dal 1882 e arrivano fino al 1948 dell’Ospedale Psichiatrico San Martino, oggi riunite a Lodi in un centro Archivi, fino ai volti. I volti di quelle donne che furono tra le vittime principali di un’istituzione nata per adoperare una vera e propria funzione di selezione sociale, chiudendo e separando dal resto del mondo i soggetti giudicati più labili mentalmente, deboli, senza cultura né prospettive, talvolta con la sola colpa di essere poveri. Le donne immortalate nell’esposizione sono soprattutto quelle ricoverate tra il 1882 e il 1948, anche se il massimo dei ricoveri nel manicomio fu raggiunto in epoca ben più recente, tra il 1960 e il 1970, poco prima della legge Basaglia, in coincidenza con il grande flusso migratorio che, dal Sud Italia, riversò nel comasco moltissime persone pronte a essere sacrificate come capri espiatori in quella “psicopatologia del migrante” allora molto in voga.

In ogni caso, come dicevamo, la mostra è stata dedicata alle donne, poiché proprio loro furono le vittime più importanti dell’ostracismo sociale di una società patriarcale e maschilista, che voleva reprimere chiunque non accettasse di sottomettersi ai modelli imposti dalla cultura maschile, al marito, ai padri e agli uomini in generale. Chi non era disposta a relegarsi nel ruolo di moglie e madre, ad accettare violenze e abusi, veniva rinchiusa, e in manicomio ci passava il resto della vita, perché le terapie erano appena aleatorie, e talvolta neppure necessarie, in realtà, dato lo stato mentale di alcune delle ospiti, che tutto erano, tranne che “matte”.

Luride, agitate, criminali. Un secolo di internamento femminile (1850-1950)

Ciò contro cui avevano lottato tanto fuori lo subivano all’interno dell’istituto, vittime di vessazioni, umiliazioni di ogni sorta, di una vera e propria spogliazione dell’identità che faceva perdere loro ogni forma di autosufficienza, di contatto con l’esterno, spesso costrette a costrizioni e violenze fisiche o psicologiche.

Le storie delle donne cancellate: Angela, Eloisa e le altre

Fonte: ph. Gin Agri

Eloisia Sadun, sposata con Mario Luzatto, fu rinchiusa poco dopo la fine del fascismo, e fu “ospite” anche dell’ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio. Nei sette mesi in cui rimase subì una cura a base di elettrochoc e insulina per cancellare l’esaurimento nervoso che, da quando aveva 14 anni, la accompagnava. Nonostante la malattia, Eloisa era riuscita a laurearsi in scienze economiche e commerciali. Venne ricoverata dopo aver partorito, e la sua storia clinica parlò di presunta irritabilità, instabilità del carattere, insonnia e umore depresso. Veniva inoltre sottolineato come anche la famiglia fosse soggetta a debolezze mentali. “Per queste sintomatologie – scrivevano dal San Martino, come riporta  questo articolo – fu ricoverata in questa casa di cura”. Il 25 settembre di ottant’anni fa scriveva, pensando al suo Carlì, “Ci si può innamorare delle parole d’amore anche se dirette a un’altra” e si domandava perché non si facesse vivo con lei: “Può scrivermi col suo nome, con altro, come vuole. Non sarà proprio lui a temere di parlare d’amore per me?”.
Le cartelle cliniche di Enrica raccontano della sua voglia di protestare, di picchiare le ammalate e di bestemmiare. Una rabbia incontrollata rivolta soprattutto ai genitori, colpevoli d’averla messa al mondo con un peso, un malessere tanto forte dentro l’anima. Il suo carattere irascibile la condanna a essere legata al letto, “per evitare scandalo alle altre ammalate”. I medici e il personale del San Martino ricevevano molti complimenti quando riuscivano a renderla inoffensiva e la descrivano così: “Mangia molto, e se non è accontentata bestemmia come un turco”. Enrica, infatti, aveva molta fame quando si risvegliava dal torpore medico.

Maria Giussani viene rinchiusa per la prima volta a trentadue anni, nel 1933, per morire quattro anni dopo. Era depressa e non mangiava. Il suo esame psichico, dove è annotato il peso di 38 chili, ne è la prova. Scrisse una lettera al marito Angelo, reo, secondo lei, di non volerla incontrare: “Mi fai sempre quella figura di non ricevermi, io non so come fare per vederti. Se per caso ti ho offeso dimmelo che ti domando perdono. Appena ricevi, fammi il piacere di dirmi quando devo venire a trovarti”.

Ai “signori della censura”, invece, Maria scrisse questo:

A voi che leggete queste mie misere parole, fatemi il piacere di mandarmi la risposta.

La sua missiva non venne mai recapitata.

Angela Martegani, originaria della Svizzera tedesca, fu ricoverata il 29 aprile del 1940 per “psicosi istero epilettica”. Aveva 19 anni. Uscì a novembre, dichiarata guarita. Chi fece dentro e fuori l’ospedale fu invece Liliana Frigerio, di Albese con Cassano, che fu internata la prima volta il 30 aprile 1943, per uscire il primo giugno dello stesso anno. Fu poi rinchiusa due settimane più tardi, per uscire l’11 settembre. Aveva 13 anni appena. Per lei furono autorizzate delle iniezioni di sangue malarico, in modo da “buttar fuori” il demone, cardiazol, insulinica ed elettrochoc. Orfana di padre, veniva descritta come “laboriosa, intelligente, buona e socievole”, eppure nessuno riusciva a spiegarsi il persistere di “questa forma morbosa”.

Questa mostra non può lenire le sofferenze subite da queste donne; ma può sicuramente aprire gli occhi su una realtà che oggi ci sembra lontana e astratta e in questo modo, sì, riedificare la loro figura. E dare loro di nuovo un’identità, la cosa che è stata loro strappata dalle mani.

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