Gli insulti a Benetton: quando abbiamo iniziato a odiare così?

Gli insulti a Benetton: quando abbiamo iniziato a odiare così?
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“Rimandiamoli a casa loro”, “Chiudiamo tutti i i porti e mettiamoci le navi da guerra che sparino a vista”, “L’Italia agli italiani”.

Tante frasi, troppe, tutte rimarcanti una pericolosa deriva verso l’appiattimento totale di ogni sentimento di empatia, di umanità, di solidarietà. Ne sentiamo ogni giorno, a commento degli sbarchi di immigrati, fomentate da quel nazionalismo in versione 2.0 che tanto sembra tornato in auge ultimamente, da quell’esasperata propaganda patriottica che sembra richiamare alla memoria pericolosi precedenti, persino dai meme sui social, che si sono improvvisamente fatti fonti attendibili di informazione e luogo su cui costruire la propria coscienza, politica ma non solo.

La linea di demarcazione è talmente netta da fare persino paura: se li difendi sei un buonista, uno di quelli che “dovrebbe prendersene un paio a casa sua”, se sostieni che il modo per aiutarli ci sia, ma sia diverso rispetto all’accoglierli tutti il passo per essere tacciato di razzismo è breve, fin troppo. Oltre quel limite, una schiera di patriottici dell’ultim’ora convinti di avere la panacea per tutti i mali, che magari sono fervidi antiabortisti e poi non si fanno troppi scrupoli a lasciar in mare al proprio destino 700 persone, compresi bambini e donne incinte.

Il caso Aquarius ha scosso inevitabilmente le coscienze di tutti, per un verso o nell’altro; e, se non spetta a noi occuparci di rapporti diplomatici internazionali, è però nostro compito quello di fare informazione, e anche invitare a una riflessione, che in questo caso riguarda principalmente la perdita di umanità, quell’indurimento morale che spinge sempre più persone ad abbandonare la benché minima virtù di compassione e pietà cavalcando l’onda del “prima noi”.

Lo spunto per questo ragionamento arriva dai due post pubblicati da Benetton sulla propria pagina Facebook ufficiale: due foto delle persone salvate proprio dall’Aquarius, volti di uomini con i giubbotti di salvataggio ora distesi, persino sorridenti, dopo ore interminabili passate in mare, abbandonati inconsapevolmente al rimpallo di responsabilità e alla gara di forza che intanto si giocava sulla terraferma, in Europa, a una manciata di chilometri da quella nave su cui molti hanno, forse, persino pensato di morire; donne e bambini pronti a sottoporsi ai controlli di rito una volta sbarcati, ancora scombussolati ma, almeno, salvi.

I commenti sotto i due post (che abbiamo raccolto in gallery) spaziano da chi accusa l’azienda veneta di volersi far pubblicità lucrando sulle spalle degli immigrati, a chi li invita in termini piuttosto coloriti ad aiutarli aprendo fabbriche nei loro paesi, ma non manca chi rimarca la necessità di occuparsi prima degli italiani, di rispedirli a casa e di “difendere la patria”.

Certo, in un mondo che accetta senza neppure troppo scomporsi la foto del corpicino di un bambino morto annegato proprio mentre tentava, con la sua famiglia, di raggiungere un mondo che credeva migliore, non potevamo aspettarci né pietà né comprensione per il dramma di persone che vengono, molto semplicisticamente, bollate come “migranti commerciali, non profughi né fuggenti da una guerra”.

A trionfare, oggi, semmai è la pietas, nella sua accezione originale, quella con cui i romani intendevano il sentimento di devozione e di sottomissione ai doveri legati alla patria, allo Stato e alla famiglia. Perché, come detto, di fronte all'”uomo nero” tutti improvvisamente si riscoprono innamoratissimi del proprio paese e pronti a difenderlo dall’invasione.

Eppure a noi viene naturale chiederci da dove arrivi tutta questa rabbia, che sembra alimentarsi in modo esponenziale, e quando è stato il momento preciso in cui abbiamo iniziato ad avere così paura di ciò che è diverso, al punto da pensare che queste persone – perché tali sono, benché c’è chi cerchi di convincerci del contrario – vadano abbandonate a se stesse, non importa che siano in mezzo al mare o sotto le bombe, o a rischio di morire di fame.

La più grande arma di distruzione di massa è l’ignoranza

Recita un famoso aforisma; e, ben lungi dal voler insultare o offendere chi sta dalla parte del “rispediamoli a casa”, non possiamo che credere che, dopo tutto, sia davvero così. Ignoranza intesa non come analfabetismo o mancanza di cultura, sia chiaro, semmai come un’assenza di volontà di formarsi una vera opinione, basata su dati, fatti, informazioni, e, perché no, anche su un’esperienza personale che possa mettere più facilmente nei panni dell'”altro”.

Ma per tutto questo non si può prescindere da quella che rimane la componente fondamentale: l’umanità, quella stessa che, oberati da pensieri, insicurezze economiche, vite precarie, è la prima cosa a cui siamo disposti a rinunciare in favore dell’egoismo, soprattutto quando sentiamo minacciata la nostra piccola bolla di tranquillità. È proprio su questi due elementi che si fonda la propaganda di chi vuole a tutti i costi costringere a guardare l’altro con gli occhi del nemico, e si riempie la bocca di slogan preconfezionati, “Ci rubano il lavoro, la casa, i diritti”.

Eppure, tutto questo per noi non può passare inosservato; i commenti sotto i post di Benetton non possono non spingerci a riflettere sul quando sia avvenuto l’inasprimento morale delle nostre persone, l’abbandono di quella solidarietà umana che, pure, è la base delle relazioni vere, non di quelle che si giocano ai tavoli della diplomazia negli snervanti giochi tattici dei potenti. Dovremmo, forse, riappropriarci un minimo della nostra dimensione più umana e terrena, e tornare a sentire il dolore, la sofferenza, l’immedesimazione. Dovremmo, ma quanto davvero lo vogliamo?

Perché, se è vero che “Tutta l’Africa in Italia non ci sta”, è altrettanto vero che, come diceva Paul Charles Bourget,

La peggior disgrazia del cuore non è sanguinare, ma essere paralizzato.