La senatrice a vita Liliana Segre ha vissuto sulla propria pelle l’orrore della discriminazione razziale, con tutte le sue terribili conseguenze, e il 16 ottobre, proprio in occasione del settantacinquesimo anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma, ha voluto parlare del caso Lodi, che nei giorni scorsi ha infiammato non solo lo scenario politico, ma anche riaperto inevitabilmente la questione dei diritti e delle pari opportunità per i migranti e i loro figli.

La vicenda, che abbiamo riassunto in gallery, sta obiettivamente sul labile confine tra ciò che si può definire, prendendo in prestito il linguaggio giuridico, de iure e de facto, ovvero tra ciò che per legge è concesso e ciò che diviene prassi e pratica, pur non avendo carattere ufficiale a livello legale.

Ma, tecnicismi a parte, ciò che spinge a riflettere sulla questione dell’allontanamento dei bambini figli di immigrati dalle mense scolastiche e dell’interdizione all’accesso del servizio di trasporto scolastico ha a che fare soprattutto con il lato umano di tutta quella storia, che alla fine, noi che non abbiamo né gli strumenti, né le competenze per occuparci di legge, è quello che ci interessa di più. Per questo ci hanno colpito le parole della senatrice Segre, che ai microfoni di Circo Massimo, su Radio Capital, ha posto un interrogativo più che lecito.

I bambini che si vedono scartati, messi da parte rispetto agli altri… Cosa gli importa che non ci sia un documento, che manchi una virgola? I bambini messi da parte ne risentono tutta la vita.

Ma la senatrice a vita ha posto l’accento su un altro aspetto della vicenda, se possibile ancor più delicato.

Ma quelli che li mettono da parte perché manca un timbro, dopo come vanno a casa loro, a mangiare coi loro bambini? Questo è il punto: che vanno curate le menti, vanno curati i cuori.

La Segre ha poi promesso che intraprenderà personalmente un’azione per far sentire la voce e il dissenso rispetto alla scelta operata dalla sindaca lodigiana, Sara Casanova.

Nella mia modestissima vecchiaia, andando in senato tra pochissimi giorni presenterò un disegno di legge contro l’odio, perché le parole dell’odio, che oggi viaggiano più di quelle dell’amore, sono quelle che fanno sì che un bambino non possa mangiare con gli altri.

Proprio qui sta anche la nostra riflessione; non in quello che legalmente, quindi de iure, era pieno diritto della sindaca fare, ma in quello che, de facto, accettando questa pratica, potrà diventare il sentire comune rispetto al problema dei migranti, quello che sarà il risultato ultimo di questa prassi. Ovvero una disparità sociale e morale evidente, inevitabilmente avvertita dai bambini, tutti: dai figli degli immigrati, peraltro nella stragrande maggioranza dei casi nati in Italia, che non comprenderanno il perché della separazione, essendo loro vittime incolpevoli delle lungaggini burocratiche ma soggetti principali su cui tali scelte si ripercuoteranno. Loro vedranno solo di essere divisi dai compagni di classe, dagli amici, e, incapaci di spiegarsi perché, acuiranno in sé solo il senso di essere “diversi”. Ma anche dagli altri bambini, quelli “privilegiati”,  gli italiani, che potrebbero crescere nella convinzione di essere “di più”, di avere un maggior valore rispetto ai compagni con cui non possono più condividere il pasto in mensa o il posto sul pulmino della scuola.

Non è, forse, questo il rischio maggiore? Continuare a perpetrare il “mito” delle differenze, il classismo, la divisione, e vivere solo nella speranza che non porti a conseguenze devastanti come settant’anni fa?

Sia chiaro, la legge esiste per essere rispettata, su questo non ci piove. Ma ha ragione anche Shy quando, nella sua clip su YouTube in cui riassume sia questa vicenda, che quella di Riace, sottolinea un altro aspetto: quanto siamo sicuri che tutti i  bambini italiani che usufruiscono gratuitamente dei servizi scolastici provengano da famiglie bisognose, e non da famiglie i cui genitori lavorano in nero e magari hanno conti in banca all’estero o proprietà non dichiarate? Non si tratta di fomentare a tutti i costi la cultura del sospetto, che poi è tipicamente italiana, né di valicare i confini di questa vicenda per parlare di controlli sull’evasione fiscale e dei “furbetti” del lavoro nero, con cui si rischierebbe di aprire un circolo praticamente infinito, ma solo di evidenziare una differenza che a noi sembra sostanziale: la differenza tra legalità, per cui si deve lottare affinché sia garantita, con tutti i mezzi leciti a disposizione, e tassonomia, fra la necessità di far rispettare un sistema per il corretto funzionamento dello stesso e la classificazione, su basi dubbie, in cui si richiede un quid in più solo ad alcuni.

Anche se il problema di Lodi si è risolto, dato che grazie alla raccolta fondi organizzata dal Coordinamento Uguali Doveri, pari a circa 60 mila euro, i bambini sono riusciti a tornare a mensa, in loro resterà sempre il ricordo di essere stati considerati “diversi”, di essere stati accantonati. Non capiranno, se non in età adulta, perché sono stati separati dai compagni, avvertiranno solo che qualcuno, fra i grandi, li ha giudicati “differenti”. E questa, come ha detto la senatrice Segre, potrebbe essere una ferita difficile da rimarginare.

Caso Lodi: “Chi ha scartato quei bambini come fa a guardare i propri figli?”
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