Spesso la passione per il proprio mestiere spinge a darsi senza sosta, e a non preoccuparsi dei rischi che si possono correre per farlo al meglio, soprattutto quando questo comporta raccontare l’incubo delle zone di guerra e vivere costantemente sotto il rumore assordante delle bombe e il pensiero rivolto sempre al peggio.

Per alcuni è “solo” un lavoro, per altri, come Shah Marai, una vera e propria missione: documentare l’orrore dei conflitti, il dramma delle popolazioni strette nella morsa della guerra o oppresse dal terrorismo, per far conoscere al resto del mondo la storia di paesi e persone altrimenti dimenticate era il sogno, e l’obiettivo, che il fotografo afgano capo della redazione Agence- France Press di Kabul si era dato nella vita.

Quella stessa che ha perso nel duplice attentato kamikaze del 30 aprile a Kabul, che ha ha ucciso 31 persone. Molti, fra le vittime, erano giornalisti, colleghi di Shah che, come lui, volevano semplicemente continuare a tenere vivo il pensiero e la memoria di queste zone che ormai da tempo non conoscono la pace, che non volevano permettere che tutto ciò che avviene in Afghanistan finisse nel dimenticatoio del mondo occidentale. Yar Mohammad Tokhi, Ghazi Rasooli, Nowroz Ali Rajabi, Saleem Talash, Ali Saleemi, Mahram Durani, Ebadullah Hananzai e Sabawoon Kakar, i nomi dei giornalisti, come riportano Reporters Without Borders (RSF) e l’Afghanistan Journalists Centre (AJC), che hanno perso la vita. Lavoravano per Radio Free Europe/Radio Liberty, Tolo News, 1TV e Mashal TV.

E poi c’è lui, Shah, una vita e una carriera intere dedicate a raccontare la paura durante il dominio talebano, e poi le effimere speranze dopo l’intervento americano; la povertà delle periferie così come la vita quotidiana nelle fabbriche e al mercato del bestiame, e poi le tempeste di sabbia e di neve, i luoghi degli attentati insanguinati e i ritratti dei leader politici. L’obiettivo di Marai ha immortalato volti e luoghi tra i più diversi nella vita di Kabul, fra cui Hamid Karzai, il primo presidente eletto del paese, con i leader mondiali in visita, o Tarana Akbari, la bambina di 11 anni protagonista della famosa fotografia di Massoud Hossaini, suo amico e collega, vincitore del Premio Pulitzer nel 2012.

A Kabul non c’è più speranza. -scriveva Marai nel blog di AFP – Quindici anni dopo l’intervento americano e con il ritiro delle truppe occidentali nel 2014, (…) la vita sembra essere più difficile anche rispetto a quando c’erano i talebani perché c’è più insicurezza. Non oso portare i bambini a fare una passeggiata. Ne ho cinque e passano il tempo chiusi in casa. Ogni mattina, quando vado in ufficio e tutte le sere mentre torno a casa, penso solo alle auto che possono essere trappole esplosive o ai kamikaze che escono dalla folla. Non posso correre questo rischio. E quindi non usciamo. Ricordo fin troppo bene il mio amico e collega Sardar, ucciso con sua moglie e i suoi due figli mentre era in un albergo, in gita, con il suo bambino più piccolo sopravvissuto in qualche modo all’attacco. Non ho mai sentito la vita avere così poche prospettive e non vedo vie d’uscita. È un’era di angoscia.

Gli anni dopo l’invasione americana sono stati un periodo di grande speranza. Gli anni d’oro. Dopo l’oscurità del dominio talebano, l’Afghanistan sembrò finalmente essere sulla strada per una vita migliore. Ma oggi, quindici anni dopo, quella speranza è svanita e la vita sembra essere ancora più difficile di prima -scriveva nel 2016, poco prima della nascita del suo sesto figlio, raccontando di ciò che era rimasto in Afghanistan dopo la guerra, l’intervento americano e il successivo ritiro delle truppe occidentali.

Ho iniziato a lavorare per AFP sotto i talebani, nel 1998- scriveva ancora nel blog – Odiavano i giornalisti, quindi sono sempre stato molto discreto, ho sempre fatto in modo di indossare il tradizionale abito shalwar kameez quando uscivo e scattavo le foto con una piccola fotocamera che nascondevo in una sciarpa avvolta intorno alla mia mano. Le restrizioni dei talebani rendevano estremamente difficile il lavoro: vietavano di fotografare tutti gli esseri viventi, ad esempio, sia che fossero uomini o animali.

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Un giorno stavo fotografando fuori da una panetteria. La vita in quel momento era difficile, le persone erano senza lavoro, i prezzi stavano lievitando. Alcuni talebani mi hanno avvicinato.
‘Che cosa stai facendo?’ Hanno chiesto.
‘Niente’, risposi ‘Sto fotografando il pane!’.
Fortunatamente era nell’era precedente alle fotocamere digitali, quindi non potevano controllare se stavo dicendo la verità.
Raramente ho messo il mio nome nelle foto, le firmavo solo come ‘ispirazione’, per non attirare attenzione indesiderata su di me.

Marai ha sempre fatto il suo mestiere lottando strenuamente contro le restrizioni imposte dalla dittatura talebana, cercando una via d’uscita contro tutti i loro tentativi di soffocare la democrazia e la libertà. Mettendo a repentaglio, spesso, la propria vita, solo per far sì che quei popoli, quelle terre, non venissero idealmente abbandonati da chi, a miglia di distanza, non poteva conoscere le drammatiche condizioni in cui versavano.

Shah ricorda l’inizio degli attacchi su Kandahar il 7 ottobre 2001, meno di un mese dopo gli attacchi alle Torri Gemelle di New York che lui aveva visto sulla BBC; ricorda di essere stato fermato da un gruppo di talebani mentre cercava di raggiungere l’aeroporto per andare a Kandahar, di essere stato graziato perché loro quel giorno si sentivano “gentili”.

Ma nel blog il fotografo racconta anche dell’addio dei talebani, ricorda le strade piene di gente festante come se, finalmente, la luce fosse riapparsa nel paese dopo un periodo di tenebre.

Era un momento di grande speranza. Gli anni d’oro. Nessun combattimento in città. Le strade erano piene di truppe britanniche, francesi, tedesche, canadesi, italiane, turche. I soldati avrebbero pattugliato la città a piedi, salutando, rilassati e sorridenti. Potevo fotografarli quanto volevo.
Potevo viaggiare ovunque, a sud, a est, a ovest. Ovunque era sicuro.

Ma nel 2004 i talebani sono tornati. Prima nella provincia di Ghazni nel sud-est, poi, nel 2005 e nel 2006, hanno iniziato a diffondersi di nuovo, prendendo di mira le zone in cui si erano insediati gli stranieri. Il paese fu precipitato di nuovo nel panico, spiega Marai.

Quindici anni dopo l’intervento americano – si legge nel blog – gli afghani si ritrovano senza soldi, senza lavoro, solo con i talebani alle loro porte. Con il ritiro delle truppe occidentali nel 2014, molti stranieri hanno lasciato il paese e sono stati dimenticati, così come i miliardi di dollari versati.

E la grande quantità di attentati che ha travolto l’Afghanistan nell’ultimo periodo è la prova di quanto le parole di Shah fossero vere; nelle ultime settimane prima dell’atto terroristico in cui lui stesso ha perso la vita, sono stati diversi gli episodi nel paese, a partire dall’autobomba esplosa nella provincia meridionale di Helmand, per andare all’esplosione suicida del 22 aprile in cui sono rimaste uccise 57 persone (tra cui almeno cinque bambini), fino all’attacco di marzo in cui ci sono stati 13 morti e 35 feriti.

Stavolta è il giorno di piangere Shah Marai che, come i suoi colleghi, aveva un grande sogno e ha cercato di lottare fino all’ultimo per realizzarlo. Il suo sogno era dare una voce e un volto alla gente oppressa dalla guerra, ma il prezzo che ha pagato è stato davvero il più alto possibile.

Dopo la notizia della sua morte, sono arrivati numerosissimi i messaggi di cordoglio da parte di colleghi in tutto il mondo, mentre a noi non restano altro che le sue straordinarie immagini che, negli anni, hanno raccontato davvero il volto della guerra.

Morire per un sogno: addio a Shah Marai
afp/shah marai
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