Per molte e molti tra noi il lavoro è diventato più importante che vivere. Il fenomeno ha diverse ragioni personali: c’è chi può essere mosso dal bisogno di guadagnare di più, c’è chi è guidato da una sorta di senso del dovere, oppure chi semplicemente trova nel lavoro la sola cosa non dolorosa della propria vita.

Al di là delle ragioni personali, c’è però un’altra verità: esiste un vero e proprio fenomeno culturale che ci spinge a pensare che se ci fermiamo anche per pochi minuti durante il lavoro il mondo cadrà. Si tratta della hustle culture.

Hustle culture: cosa significa?

Hustle culture
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Hustle in inglese vuol dire attività febbrile, trambusto, tran tran. Ma la hustle culture può essere tradotta come stacanovismo. Quest’ultimo fenomeno era considerato una delle virtù dello stalinismo: l’iperlavoro era ben visto e incoraggiato dal regime dell’Unione Sovietica, perché in quella società il lavoro era propagandato come responsabilità collettiva.

Tutti dovevano lavorare perché la collettivizzazione dei mezzi e delle proprietà comportavano delle perdite economiche. O almeno era quello che veniva inculcato ai lavoratori, perché proprio sotto Stalin esisteva anche una classe di uomini d’affari che, esattamente come nell’Occidente capitalista, deteneva l’1% della ricchezza.

Michail Bulgakov, che fu un fervente oppositore di Stalin, ci scrisse un meraviglioso racconto intitolato Diavoleide, in cui un uomo impazziva per l’iperlavoro e per la paranoia legata a un suo superiore – che gli appariva ubiquo, quando in realtà si trattava di due gemelli. Perché vivere per lavorare mina la salute, fisica e soprattutto mentale.

Certo ci sono delle differenze. Lo stacanovismo  si esprimeva sotto una dittatura e quindi le persone, come in tutte le dittature, erano obbligate a seguirne le regole, pena delle terribili purghe. Nella nostra società le persone sono libere, eppure sono in qualche modo oppresse dalla hustle culture, che li spinge a pensare che lavorare non sia una necessità personale ma un modo per ricevere soddisfazione, appoggio da parte degli altri. Tutto ciò che è vita fuori dal lavoro viene considerata così, a torto, un’interferenza.

Alcuni dei risvolti della hustle culture sono sottili. Per esempio potrebbe esservi capitato di sentire donne che svolgono libere professioni vantarsi di non aver preso congedo per gravidanza e allattamento. È una di queste forme sottili: i congedi per gravidanza e allattamento (così come la malattia o il lutto per lavoratori di tutti i generi) sono diritti, tanto che quando si è dipendenti, il datore che non li concedesse dovrebbe affrontare le ripercussioni che la legge prevede.

Ma è come se l’idea del superlavoro si sia impressa nella mente di alcune e alcuni di noi, come se ci si fosse convinti che il valore di essere impegnati lavorativamente sia una sorta di gara da vincere. E vince chi lavora più ore, chi sacrifica di più la sua vita privata senza averne addirittura la percezione. E spesso non riceve neppure un ritorno economico adeguato da questo.

Fondamentalmente – spiega Joe Ryle a Goodhousekeeping – la hustle culture riguarda il lavoro che domina il nostro tempo in un modo così innaturale che non abbiamo tempo per vivere le nostre vite.

Ryle è il direttore della campagna 4 Day Week, un movimento che mira a ridurre l’orario lavorativo settimanale a 4 giorni. Alcuni Paesi occidentali si stanno orientando verso questa scelta per quanto riguarda gli impieghi da ufficio e l’Italia, Paese in cui negli anni ’90 cadde perfino un governo a causa del dibattito sulle 35 ore lavorative settimanali, guarda a questi esperimenti con estremo interesse.

Secondo un sondaggio del 2021 pubblicato dall’Adp Research Institute, il 10% dei lavoratori dipendenti dei 17 Paesi coinvolti nella ricerca ha affermato di aver svolto più di 20 ore di lavoro gratuito a settimana, mentre i lavoratori in media registrano 9,2 ore di straordinario non retribuito settimanale, rispetto alle 7,3 ore nel 2020.

Non si tratta quindi solo di guadagnare di più per permettersi qualche necessità o lusso in più: si tratta di soccombere a una logica ai confini dello schiavismo, perché parte di questo lavoro non è appunto pagato. Una logica che viene spacciata e confusa per senso del dovere.

Valori e principi della hustle culture

I valori e i principi della hustle culture si possono riassumere in questo modo:

  • il lavoro è la parte più importante della propria vita;
  • coloro che non dedicano l’intera vita al lavoro sono dei perdenti;
  • la realizzazione personale può passare solo attraverso l’ambizione lavorativa;
  • lavorare più ore non è solo un modo per guadagnare di più con lo straordinario, ma un mezzo per ottenere crediti in termini di eroismo di fronte alla società;
  • non permettere alla vita privata di interferire con il lavoro;
  • per il lavoro si deve rinunciare a tutto ciò che può rappresentare un’interferenza (hobby, relazioni sentimentali, famigliari o amicali, prole, tempo libero).

Perché la hustle culture è dannosa

Hustle culture
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È giusto lavorare per vivere: ciò che guadagniamo mantiene noi e le nostre famiglie in termini di casa, cibo, vestiti e cure mediche, un’occupazione ci mantiene attivi e a volte può riservare delle piccole o grandi soddisfazioni. Finisce qui. Anche se è importante comprendere e non giudicare, vivere per lavorare non è giusto, perché può avere delle ricadute negative sulla propria socialità e anche per la salute.

A volte si finisce semplicemente per dire sempre sì, e i no sono malvisti dal team di lavoro, perché quando si entra nella logica della hustle culture, il lavoratore che fa il suo dovere limitandosi all’indispensabile è visto come un traditore. Un po’ come in una più perversa e moderna catena di montaggio di fordiana memoria. Ma non c’è nulla di eroico nel superlavoro: il rischio principale è quello del burnout.

Si tratta di una sindrome legata al fatto che le troppe ore di lavoro, soprattutto se il lavoro non ci è esattamente congeniale (e in questi tempi di crisi economiche che si avvicendano, quante persone possono dire di svolgere il mestiere dei propri sogni?). La sindrome di burnout porta in breve tempo a soffrire di diversi sintomi. È un’escalation: prima c’è lo stress, poi arrivano ansia e attacchi di panico, e ci può essere anche la depressione.

Hustle culture: come uscirne

È chiaro che parlare del fenomeno è un primo passo per farlo conoscere. Molte e molti di noi subiscono la hustle culture senza saperlo. Il secondo passo non è meno importante: riconoscere di avere un problema. Il rischio del burnout è reale e non deve essere sottovalutato. Quindi si deve decidere di rimettere in discussione il proprio sistema di valori: se il lavoro viene prima della propria salute e delle altre persone forse è il caso di chiedere un aiuto specifico.

Non basta interrogarsi sulle forme inconsapevoli che la hustle culture ha assunto nelle nostre vite, si deve aver bisogno di cambiare alcune cose della nostra vita. E in questo la psicanalisi può avere un ruolo fondamentale, grazie a sedute di terapia cognitivo-comportamentale sia individuali che di gruppo. Non abbiate remore a chiedere aiuto professionale. Il nostro lavoro può essere ridotto al minimo indispensabile che rientra tra i doveri dell’eventuale contratto, ma la salute non ha prezzo.

Per il resto, diventa fondamentale programmare il proprio tempo libero. Iniziare a godere delle ferie accumulate, accogliere in maniera serena tutti i regali che la vita ci offre, come una piccola ma necessaria pausa caffè e smetterla pian piano di sacrificare appuntamenti rilassanti con le persone in favore del lavoro.

In altre parole, se un’amica vi invita a fare shopping fuori dall’orario di lavoro, non restate in ufficio. Tornate a casa in orario e non fate troppi straordinari per aiutare vostro figlio a fare i compiti: magari non ne ha bisogno sul profilo della didattica ma ne ha dal punto di vista emotivo-affettivo. E anche voi ne avete bisogno.

A volte è importante fermarsi a godere del profumo di un fiore e non dobbiamo scordarlo mai.

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