"Solos" e il valore di un abbraccio di cui non sapevamo di avere bisogno

Tra le esperienze di una vita e i mille ricordi che rendono un essere umano tale, il calore di braccia tra le quali perdersi non sono forse il gesto più rassicurante e completo, a cui per troppo tempo abbiamo dovuto rinunciare durante la pandemia?

Di sindrome da capanna, pur se studiata sin dagli inizi del secolo scorso, probabilmente molti di noi non avrebbero mai sentito parlare se una pandemia non avesse imposto al mondo intero (o quasi) un lockdown totale: per mesi un virus ha costretto gran parte del genere umano a chiudersi in casa e ora in molti non riescono più a uscirne. Almeno non con la facilità del pre-Covid.

Non ne esce da 21 anni Sasha, una delle protagoniste della serie tv Solos (disponibile su Amazon Prime Video dal 25 giugno). Ambientato in un futuro prossimo, l’episodio della serie antologica firmata da David Weil (diventato celebre e amatissimo come produttore e showrunner di Hunters), immagina la donna perfettamente a suo agio nella sua abitazione iper-tecnologica, dove è rinchiusa per paura di un virus globale, con la sola compagnia del suo assistente domestico, una sorta di Alexa (o Google o Siri se non fosse una serie targata Amazon, a cui appartiene l’Alexa Voice Service) che oltre ad accendere le luci e le televisione, riconosce gli stati d’animo e si preoccupa delle condizioni di salute, emotive comprese, della propria assistita.

Al di là dei risvolti distopici del tenersi in casa un’intelligenza artificiale che ha a cuore il nostro umore, rinchiudersi in una scatola di vetro incorniciata da una folta vegetazione, con cibo e vino a profusione e possibilità di intrattenimento infinite, è senz’altro un isolamento in versione “luxury” migliore di quello vissuto dalla stragrande maggioranza di noi. Eppure Sasha, arrabbiata e in preda al panico, ci assomiglia più di molti altri nel suo vedere l’esterno e l’altro da sé come dei pericoli, possibili veicoli di malattia: qualcosa da cui stare lontano, da non toccare e – soprattutto – da non abbracciare.

Anche per i meno propensi alle effusioni fisiche, questa lunga assenza di contatto fisico con chiunque non sia qualcuno di molto vicino e di molto intimo, rischia di minare nel profondo la nostra emotività. Le strette di mano, le pacche sulle spalle, le carezze, i baci: gesti di cui andiamo dimenticando il calore, il potere rassicurante, il valore.

Quando potremo tornare a fidarci del resto del mondo? Poco importa, ci dice Solos, l’importante è ricominciare a prendere confidenza con chi ci passa accanto e ad abbracciare chi ci chiede del conforto. In fondo, tra tante esperienze e mille ricordi, forse quello che più conta è il tepore rasserenante che si prova tra le braccia di un altro essere umano.

Solos
Anne Hathaway in “Solos” (Courtesy Press Office)

Perché vedere la serie tv con Anne Hathaway

Un cast più che illustre (tra cui spiccano ben tre premi Oscar) è uno dei motivi – e forse l’unico  – per cui Solos è una serie tv da non perdere. Che poi molte delle attrici e degli attori siano molto meno a loro agio di quello che ci saremmo aspettati è altro paio di maniche. Fatta salva Helen Mirren, che con il piglio da interprete navigata quale è, frequentatrice assidua di tavole di palcoscenico, affronta con facilità il monologo imposto dal format rendendo credibili le parole che pronuncia al  cospetto del solo navigatore artificiale, ripercorrendo con emotività contenuta – e corretta – la sua vita.

Il suo personaggio, Peg, ricorda il George Gray nato dalla penna di Edgar Lee Masters che per lapide, nel cimitero dove ha luogo l’Antologia di Spoon River, ha una barca con le vele ammainate nel porto, perché nella vita è stato “una barca che anela al mare eppure lo teme“. Allo stesso modo Peg ha fuggito l’amore, il dolore, l’ambizione e una volta sola e senza uno scopo ha scelto invece di salire su una nave – spaziale in questo caso – e partire ormai vecchia verso orizzonti sconosciuti.

Se Mirren rende il suo assolo sentito e credibile, le altre quattro colleghe e tre colleghi non fanno altrettanto, riuscendo nei migliori dei casi a offrire una performance dignitosa e poco più, rasentando il fastidio nei peggiori. Non a tutti la recitazione in un mondo di green screen e post-produzione viene così facile, d’altronde. Colpa dei testi, spesso eccessivamente scontati e melensi, e colpa della storia, che in fondo non riesce mai a spiccare il volo come fa invece Peg/Mirren.

Tecnologie futuristiche, trattamenti per la fertilità, viaggi nel tempo, trapianti di memoria si accompagnano alla voce fuori campo di Morgan Freeman che si chiede di volta in volta: se viaggi nel futuro, puoi sfuggire al tuo passato? La minaccia esterna è maggiore di quella interna? Quanto lontano andresti per ritrovare te stesso?

Siamo molto distanti da Black Mirror, insomma. A parte le tante star, veleggiamo nel trito e ritrito, che in questi tempi di offerta ipertrofica rendono Solos decisamente dimenticabile.

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Constance Wu in “Solos” (Courtesy Press Office)

La scheda di Solos

La serie antologica sci-fi in sette episodi disponibile su Amazon Prime Video dal 25 giugno si pone l’obiettivo dichiarato di riflettere su cosa significhi essere umani in un mondo sempre più atomizzato e tecnologicamente avanzato. Da questa vaghissima premessa, racconta le storie di otto persone in sette episodi, ognuno ambientato nel prossimo futuro, collegate tra di loro in un modo che si scoprirà solo nell’ultima puntata.

Nel cast, i premi Oscar Morgan Freeman (per il film Million Dollar Baby), Anne Hathaway (per il musical Les Misérables) ed Helen Mirren (per la sua interpretazione in The Queen), la vincitrice di due Emmy Uzo Aduba (in Orange Is the New Black), accanto a Nicole Beharie, Anthony Mackie, Dan Stevens e Constance Wu.

Solos è creata da David Weil che debutta come regista, dirigendo tre episodi. Sam Taylor-Johnson è regista ed executive producer di due episodi. Tra i registi si annoverano anche Zach Braff e Tiffany Johnson.

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