L’e-commerce ha dato sicuramente una svolta ai nostri acquisti di tutti i giorni, ma ha indubbiamente reso la vita più difficile anche ai commercianti che, spesso, non riescono a reggere i ritmi e la concorrenza di questi colossi dello shopping online, capaci di far arrivare a casa la merce richiesta nel giro di pochi giorni, talvolta con la possibilità di restituirla senza penali o esborsi supplementari.

Già, parliamo di questo: i resi. È sicuramente un aspetto poco trattato dell’argomento, eppure ne rappresenta un lato “oscuro”. Di cosa succeda ai milioni di pacchetti che, ogni giorno, in tutto il mondo, vengono restituiti si sa poco o niente, se non che, come detto, il cliente ha l’opportunità di “liberarsi” della merce che non lo soddisfa senza dover mettere di nuovo mano al portafoglio.

Ma cosa accade a chi riceve indietro gli oggetti che non si vogliono più, ovvero le ditte e i magazzini in cui i resi vanno a finire?

La verità dietro i resi che i clienti non pagano

Un interessante documentario tedesco proposto da Art svela la verità di ciò che accade una volta che i resi arrivano nei magazzini dei rispettivi venditori; c’è chi sceglie di rimettere in vendita la merce restituita, e chi invece segue altre strade. L’Hermes Fulfilment di Amburgo, ad esempio, è uno dei più grandi centri europei di smistamento dei resi, il che significa che gli oggetti rispediti al mittente passano da loro, prima di tornare nei grandi shop che sono loro clienti. Rappresentano una sorta di intermediari, che ogni giorno si occupano di valutare, ispezionare e ripulire gli articoli tornati indietro con le più disparate motivazioni.

La media degli articoli resi in una singola giornata può arrivare addirittura a 124 mila, con un ritmo di 120 articoli all’ora trattati dagli addetti. Cosa significa trattare un reso? Significa, ad esempio, pulirlo, se si tratta di un capo di vestiario, soprattutto se in presenza di sudore o macchie. All’Hermes Fulfilment il 97% dei capi resi passa dalla lavanderia, prima di tornare allo shop di appartenenza; ma significa anche visionare elettrodomestici, divani o televisori restituiti, con una media di circa 600-650 apparecchi al giorno da esaminare, che più difficilmente saranno re-immessi sul mercato. Senza contare la spesa: un reso di questo genere, che al cliente non costa nulla, costa invece al venditore circa 8 euro, e ogni apparecchio reso, anche se mai utilizzato, viene rivenduto sul mercato solo come seconda scelta, con un ribasso del prezzo.

La situazione più difficile viene però vissuta dai piccoli commercianti, ovvero quelli che, alla vendita “tradizionale” aggiungono anche quella online, che si vedono restituire addirittura un articolo su due, spesso con motivazioni davvero vaghe, come un semplice “non mi piace”. Davvero difficile da credere, visto che ogni capo o prodotto è dettagliatamente descritto sullo shop online, ed è perciò strano pensare che il cliente non ne conosca le caratteristiche.

Ma c’è anche di più: i negozi più piccoli, che spesso fanno parte di franchising o gruppi internazionali con store sparsi in tutto il mondo, non possono chiedere il pagamento di una penale per il reso perché il brand cui appartengono deve adeguarsi ai grandi colossi dell’e-commerce, come Zalando o Amazon – che hanno resi gratuiti – per essere concorrenziale. Così, finiscono per pagare due volte: sia la spedizione, che la restituzione dell’articolo, il quale, ovviamente, talvolta non potrà più nemmeno essere rimesso in vendita nello store fisico.

A proposito di Amazon, come funziona la gestione dei resi nel gigante del commercio online?

Le condizioni dei resi di Amazon

Secondo le testimonianze raccolte dall’inchiesta vincitrice del Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale 2019, solo in Italia Amazon distrugge mensilmente fino a 100 mila prodotti, che sono resi danneggiati e beni invenduti.

Solo una piccolissima parte dei resi, infatti, trova una nuova vita sugli scaffali o viene regalata, mentre per il resto la destinazione finale è un’azienda incaricata dalla multinazionale di smaltire i beni per cui non c’è più spazio.

È davvero una “vita” strana, quella di questi prodotti: realizzati con materie prime che spesso arrivano dall’altra parte del mondo, trasportati con i mezzi più disparati fino in Italia e, infine, tornati indietro, talvolta ancora incellofanati, dritti al macero.

Questo destino, va detto, è però riservato solo ai prodotti di proprietà di Amazon oppure di un venditore che si serve in maniera esclusiva della sua vetrina (e oggi sono il 58% circa). Nel caso di fornitori esterni che ne acquistano unicamente i servizi di logistica, non è né la sede di Seattle, né la filiale europea in Lussemburgo, a decidere le sorti dei resi, ma il fornitore stesso; tutto questo in virtù di una normativa sulla distruzione volontaria emanata alla fine degli anni ’90 (in Italia disciplinata dal D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, integrata nella circolare ministeriale n. 193 del 23 luglio 1998). L’eliminazione fisica spetta invece a piccole aziende locali, a cui viene appaltato lo smaltimento.

Perché si preferisce distruggere piuttosto che restituire?

Per una semplice questione economica, naturalmente: in base al tariffario vigente tra il 2017 e il 2018, infatti, 25 centesimi per unità è il costo del reso al fornitore per un articolo di dimensioni standard (fino a 12 chili e dimensioni di 45x34x26cm), mentre 10 sono i centesimi dello smaltimento. Senza contare che, due volte all’anno, agli articoli dell’inventario rimasti nei centri logistici tra i sei e i dodici mesi venivano addebitati 500 euro al metro cubo per stoccaggio a lungo termine, capace di arrivare a 1.000 euro al metro cubo per le giacenze superiori.
Tutte tariffe al netto di IVA.

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Chiaro, quindi, che per anni i fornitori abbiano preferito la via della distruzione, a loro concessa per legge, infischiandosene anche dell’impatto ambientale dello smaltimento di certi tipi di prodotti. Solo in tempi recenti, quando è stata finalmente gettata una nuova luce sulla questione ecologica, i legislatori si sono convinti a cambiare la normativa, tanto che dal 3 settembre 2019, scorrendo tra le pagine dei servizi di Amazon, si vede che i costi di rimozione e smaltimento sono equiparati, e incrementali al crescere del peso per la distruzione.

Sarà sufficiente per preservare l’ambiente dalla distruzione incontaminata dei resi di Amazon? Anche perché, nel “tritarifiuti” finisce davvero di tutto, come spiegato da un ex dipendente che ha scelto di restare anonimo:

Questo [lo smaltimento, ndr.] accadeva circa il 70% delle volte e l’azienda mandava tutto a distruggere, merce completamente intatta. Cosa si distrugge? Tutto, anche telefonia e prodotti informatici di valore, ho visto smartphone da mille euro con il sigillo andare distrutti. Le principali categorie sono elettronica e alimentari.

Il grosso dei materiali restituiti, diversamente dall’Hermes Fulfilment, viene controllato in maniera piuttosto superficiale, seguendo la logica del “cliente ha sempre ragione” che guida la mission aziendale di Amazon; per questo, solo una piccola parte della merce viene recuperata, e rimessa in vendita come warehouse deal (merce di magazzino), ovvero oggetti ricondizionati e rivenduti a prezzi scontati.

Nel polo logistico di Castel San Giovanni, a Piacenza, sono stati i lavoratori a fare pressioni affinché i prodotti invenduti venissero donati a Caritas, a un canile, a un reparto di ospedale, oppure, nel caso di libri, tablet e giocattoli, a scuole del territorio o biblioteche. Ma Amazon, spiegano i dipendenti, se ne attribuisce il merito: “al telegiornale o sul famoso quotidiano di provincia compaiono i titoli, spesso in prima pagina”. Parliamo comunque di percentuali di merce bassissime, rispetto a quella che torna indietro.

La vita da fornitore

Non è facile neppure essere un fornitore in contatto con Amazon, a dire la verità; in caso di importazione diretta dall’estero, ad esempio, il contratto stipulato prevede che il colosso di Seattle non abbia obblighi di controllo, e che le decisione di un cliente sia considerata “prova conclusiva”. Un fornitore intervistato nel corso dell’inchiesta ha spiegato che, nel suo caso, il 75% dei beni che rientrano in magazzino sono etichettati come defected, pur non presentando evidenti problemi.

Non possiamo metterci in contatto con il cliente finale, sapere qual è il problema dell’apparato. Tecnicamente, un pezzo in perfette condizioni può tornare in vendita sul loro sito o sul nostro portale.

Ciononostante, per non perdere la reputazione costruita con gli anni, il fornitore accetta di mettere il prodotto in vendita con uno sconto del 15%.

La parola dei clienti

Perché c’è una mole tanto importante di resi? È presto detto: la politica del reso gratuito spinge molte persone ad acquistare più del necessario, o addirittura a provare per qualche tempo il prodotto acquistato, prima di rispedirlo al mittente con le più diverse motivazioni. Ma i clienti intervistati nel documentario proposto da Art ammettono candidamente che, se dovessero pagare per restituire la merce, avrebbero tutt’altro tipo di approccio.

Se un sito ha il reso gratuito per me è più interessante come consumatore – spiega un uomo – perché permette di risparmiare.

Una ragazza che sta restituendo vestiti acquistati prima di Capodanno aggiunge:

Penso che in quel caso [se il reso fosse a pagamento, ndr.] non ordinerei così tante cose. Ordinerei solo quello che penso di tenere realmente.

Il reso, quindi, è una medaglia dalla doppia faccia: un’ottima opportunità per i clienti (di cui spesso abusano) ma un costo ingente per chi si trova a dover smaltire la merce restituita, che in molti casi finisce semplicemente per essere buttata, nonostante la mancanza di evidenti difetti. Anche essere consapevoli di questo può fare la differenza per i nostri prossimi acquisti online.

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