Se iniziassimo a censurare tutto ciò che ci spaventa

Ammettiamolo: ognuno di noi, ogni tanto, pensa che censurare qualcuno o qualcosa sarebbe giusto. Soprattutto quando i nostri bambini e adolescenti sono in internet e noi non riusciamo a stargli dietro, non sappiamo che social usano, che siti guardano, di che community fanno parte, cosa stanno facendo, con chi parlano, cosa si dicono, a che pericoli si stanno esponendo...

Internet è un mondo vasto, imprevedibile e anche pericoloso. Ogni giorno dal web ci arrivano racconti spaventosi: donne vittime di revenge porn, cyber-bullismo, hate speech, idee aberranti e pericolose sostenute come sole verità. Quando viene affidato alla rete, un contenuto può diventare virale al punto da compromettere le vite delle persone, incitare alla violenza, causare incidenti politici. Di fronte a questi scenari, la tentazione di porre un limite a priori a ciò che è possibile condividere nel web è un punto di vista sempre più diffuso.

Prendo spunto dal molto rumore per nulla sollevato nei giorni scorsi con le polemiche sulla presenza a Sanremo del rapper Junior Cally.
Il suo peccato originale è quello di aver scritto e cantato pezzi che sono stati definiti misogini e violenti. Dal web alla carta abbiamo visto rimbalzare come esempio lampante un verso (decontestualizzato) tratto dalla canzone “Si chiama Gioia” in cui il rapper descrive una ragazza completamente ossessionata dalla “bella vita”, che si prostituisce all’oscuro delle persone che le sono più vicine.

Guardo la luna, ma lei la vuole / Per fare sta vita ha venduto il cuore / Lei va a dormire quando esce il sole / Non le interessa delle persone.

Un testo efficace nel tratteggiare in poche parole lo stesso disagio che hanno raccontato, ad esempio, serie tv come Baby.

Dunque, per aver pubblicato canzoni con testi crudi ed espliciti (che gli hanno procurato più di un problema anche durante i concerti dal vivo) nei giorni scorsi si è sollevata contro Junior Cally un’onda di indignazione che dalla rete è passata alla realtà ed è diventata un coro di protesta con tanto di petizioni che ne chiedevano l’esclusione dal festival.

Va detto che i testi delle canzoni sono inediti fino all’avvio della competizione all’Ariston. Quindi per paura che il rap potesse rivelarsi violento, scomodo, sessista, si chiede di rimuoverlo a priori; cioè di censurarlo. E non l’hanno fatto solo gli utenti dei social come Facebook: associazioni femministe, partiti politici, persino il presidente Rai si è unito alle richieste di esclusione. Un grande inno nazionale al “prevenire è meglio che affrontare”.

Bene. In questi giorni il testo della canzone No grazie con cui Junior Cally si è faticosamente guadagnato l’ammissione a Sanremo è stato pubblicato. E, sorpresa: parla delle derive della leadership politica ed è un pezzo provocatorio, forte, attuale. Come lo era Rolls Royce presentato l’anno scorso da Achille Lauro all’Ariston. E come lo sono spesso le canzoni rap: che descrivono e raccontano il lato scomodo della realtà in cui tutti viviamo, i margini delle nostre città, i sogni sbagliati con cui crescono e si riempiono la testa i più giovani.

Personalmente seguo in modo disordinato, non certo da esperta, il rap, la trap, l’indie nazionale. Mi piacciono: non solo perché la musica “suona diversa” ed è spesso sorprendente; ma anche perché là dentro, in quella ricerca di parole nuove e di provocazione, c’è una realtà che riconosco, in cui ci sta anche il pericolo, il fallimento, il dolore, la rabbia, il cinismo, la voglia di riscatto e l’ironia cruda di un mondo pieno di contraddizioni e differenze.

La violenza virtuale è anche reale?

Che rapporto c’è tra la violenza che leggiamo in rete e le discriminazioni e gli abusi nella vita reale? Di fronte a tutte le possibili conseguenze del virtuale, la tentazione della censura è fortissima. Mettere dei muri all’ingresso forse sembra un buon modo per arginare i disastri. Ma ogni muro è un confine imposto, invalicabile, che divide e separa le persone e che impedisce lo scambio, la conoscenza, la creatività e tutto ciò che ci permette di rimettere in discussione noi e i nostri preconcetti. Come fai a conoscere quando esiste un limite alle domande che puoi fare?

Le richieste di esclusione per Junior Cally si sono rivelate ridicole e si sono spente nel silenzio. Eppure, sempre più persone pensano che sia possibile, addirittura doveroso, imbavagliare la rete. Non tutta naturalmente: l’individualismo gioca un ruolo fondamentale nell’etichettare ciò che è “pericoloso”.

Prendiamo il contenuto più diffuso in rete insieme all’odio razziale e religioso: la pornografia, che vale circa un terzo di tutto ciò che circola nel web. Reati orribili come l’abuso, lo sfruttamento, la schiavitù e il revenge porn potrebbero giustificare un blocco globale di tutto il materiale hard presente on line. Ma significherebbe anche impedire alle persone di condividere contenuti amatoriali consensuali, cioè limitare la loro libertà.

Inoltre, sarebbero messi al bando le “scuole”, i professionisti, gli artisti e i creativi che esercitano liberamente un lavoro, spesso anche impegnato a combattere gli stereotipi e a creare un immaginario pornografico basato sulla condivisione paritaria, sull’intimità e sul gioco, come nel caso delle produzioni di Erika Lust), tanto per citare l’esempio più famoso.

Il più grande regalo di Natale quest’anno per me è arrivato da Papa Francesco, che ha rimosso lo scandaloso e orrendo segreto pontificio sui reati di pedofilia e ha trasformato la detenzione e diffusione di immagini pornografiche di bambini e ragazzi fino a 18 anni di età in “delicta graviora” cioè reato grave.

Un risultato importante che dimostra come la pressione di una internet globale libera può abbattere uno strumento di censura nato per tutelare l’immagine di un’istituzione e che ha generato, invece, una sacca di intollerabile impunità per abusi e violenze.

Un traguardo importante, quello dello scorso 17 dicembre, che però, come ci ricordano le associazioni di vittime della pedofilia nella Chiesa unite in tutto il mondo proprio dalla rete, non basta: occorre imporre la denuncia alle autorità pubbliche dei reati e bisogna estendere la rimozione del segreto alle violenze e allo sfruttamento delle donne. E su questo, continua la battaglia senza confini, fatta anche con il supporto della rete.

Internet e la censura

Ammettiamolo: ognuno di noi, ogni tanto, pensa che censurare qualcuno o qualcosa sarebbe giusto. Soprattutto quando i nostri bambini e adolescenti (dico “nostri” indicandoci come genitori, insegnanti, educatori e, in generale, adulti) sono in internet e noi non riusciamo a stargli dietro, non sappiamo che social usano, che siti guardano, di che community fanno parte, cosa stanno facendo, con chi parlano, cosa si dicono, a che pericoli si stanno esponendo. E ancora di più quando questi pericoli arrivano da contenuti condivisi dai loro amici o partner, magari con leggerezza o incoscienza. Rifiutare, proibire, censurare sono atteggiamenti più che comprensibili e, di fatto, sono la forma più diffusa di approccio ai pericoli della rete da parte degli adulti.

Ma il fatto che il divieto sia una pratica comune non la rende certamente efficace; tutt’altro. Censurare significa prima di tutto chiudersi e chiudere. In primo luogo, ci diamo un alibi per non seguire l’evoluzione (frenetica, imprevedibile, continua) di internet: anche rispetto alla rete ormai assistiamo a dichiarazioni di nostalgismo per un intenet che “una volta era migliore”.

Inoltre, il messaggio che diamo ai nostri figli è che, se succede qualcosa di serio e pericoloso, la nostra prima risposta sarà che se la sono cercata, che è colpa loro, che noi li avevamo avvisati. Verissimo: la colpa è anche loro. Ma tutti commettiamo errori (“è per questo che in fondo alle matite c’è la gomma”, dice la protagonista della serie Fleabag); e per loro commettere errori sotto la sorveglianza di internet, a cui non sfugge nulla e che niente dimentica, è uno stress così forte che se non siamo disposti ad ascoltarli, a stargli vicino, a capire, a essere dalla loro parte a priori, potrebbero non uscirne vivi.

Non fraintendetemi: dell’internet che frequentano i miei figli mi sfugge il fascino e sono un genitore severo, con un livello di controllo fin troppo alto (l’account con cui i miei figli navigano è mio; presidio la loro cronologia con regolarità; e no: non hanno ancora imparato a navigare in incognito). Però quando vivo nell’internet che interessa a me, posso anche usare l’ironia per dissacrare cose che non condivido, posso esprimere giudizi anche lapidari, posso sostenere le mie idee in dibattiti anche accesi con persone che la pensano esattamente all’opposto, posso fare tutto questo perché non esiste censura preventiva e soprattutto perché credo che la rete sia uno strumento prezioso per mettere in discussione valori culturali e professionali, deontologie e strumenti di dibattito e formazione dell’opinione.

E questo è un principio di libertà, una responsabilità civile, un patrimonio culturale e un valore umano a cui per nessuna paura dell’ignoto vorrei rinunciare.

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