Com’è possibile arrivare a odiarsi e a farsi la guerra dopo che ci si è tanto amati?

Perché si cambia fino al punto di non riconoscersi e di non tollerare più la presenza dell’altro? La sua pelle, le sue abitudini, il suo respiro, lo stesso tono di voce, a un tratto, non sono più familiari, si stenta quasi a riconoscerli e a ricordare che con l’altro, sì proprio con lui o con lei che adesso sembra un perfetto sconosciuto, ci abbiamo condiviso un tratto di vita insieme. E abbiamo solo bisogno di fuggire il più lontano possibile, consapevoli che quell’ombra sarà sempre accanto a noi. Non importa quanto sia stato lungo nel tempo il percorso fatto insieme, sicuramente in quel momento è stato intenso, nuovo, travolgente.

Talmente tanto da far scattare un “sì, lo voglio” che equivale a dire “sei la persona con cui voglio viaggiare assieme in questa strana ma pazzesca avventura che si chiama vita, alla quale voglio dare il mio contributo creando insieme a te altra vita. Sei la persona con cui desidero trascorrere le mie giornate, anche le più noiose, complicate e buie. Sei la persona con cui voglio litigare per poi fare pace. Sei la persona da cui, forse, un giorno sentirò il bisogno di scappare ma che correrà nell’ombra insieme a me pronta a raccogliermi se inciamperò. Sei la persona che sa vedermi dentro come nessun altro e, soprattutto, rispetta il mio essere individuo e i miei confini. Sei la persona che odora di famiglia in qualsiasi momento della giornata e in ogni luogo. Sei casa. Sempre.”

Eppure anche se armati delle migliori intenzioni non è detto che ci riusciamo; un po’ per pigrizia emotiva, un po’ perché, ingenuamente, crediamo che basti solo l’amore per superare tutte le difficoltà quotidiane; e un po’ perché speriamo che con un certo spirito di abnegazione possiamo colmare lacune e mancanze dell’altra persona, covando intimamente quell’innato bisogno di essere visti e accarezzati, certi che prima o poi le nostre necessità più ataviche saltino all’occhio anche dell’altra persona e giunga il nostro momento.

È qui che sbagliamo profondamente: nei confronti di noi stessi e dell’altro. Non ci riusciamo perché, nel bene e nel male, si è sempre in due, intesi non come metà di una mela ma come due esseri che si sommano e che restano tali; o dovrebbero e hanno il diritto e il dovere di prendersi cura sempre di se stessi e delle proprie aspirazioni per il proprio bene e di quello di chi ci sta accanto.

È quanto succede a Nicole (Scarlett Johansson) nei confronti di Charlie (Adam Driver) in Storia di un matrimonio di Noah Baumbach e distribuito da Netflix. Una narrazione profonda e pungente che, come anticipa il titolo stesso, prende le mosse dalla dolorosa presa di coscienza di una storia arrivata al capolinea malgrado sia ancora alimentata da un sentimento intenso che, però, non riesce più a prendere forma nella vita di tutti i giorni e non resta altro che riprendere in mano la propria vita e intraprendere un cammino differente.

Ma anche nelle migliori intenzioni, specie se c’è un figlio di mezzo, come nel loro caso e in quello dei più, si trasforma in risentimento, in recriminazioni, in accuse dolorose, in offese, in lacrime fino a sfociare in una battaglia legale lasciata in mano agli avvocati che si contendono fino all’ultimo quel minuto in tempo in più da concedere all’altro per la custodia dei pargoli.

E in mezzo a tutta questa guerra, che ricorda a tratti Kramer contro Kramer, ci sono loro, Nicole e Charlie – ma anche tutti noi che abbiamo vissuto una storia simile – che si sono tanto amati, vittime e carnefici di loro stessi nel momento in cui prendono consapevolezza di una fine e di un nuovo inizio che li vede vivere in due città opposte degli Stati Uniti che identificano anche due filosofie di vita totalmente opposte: Los Angeles per lei, sua città natale, e New York per lui, luogo in cui il loro nucleo familiare è nato, si è formato e poi si è infranto e li ha visti uno all’opposto dell’altro, come abilmente testimonia la macchina da presa.

Non si possono amare i difetti dell’altro se prima non impariamo ad avere cura dei nostri. Non è saccenza, l’ho imparato a mie spese e nel conto finale un grande peso l’ha avuto il dolore di non riconoscere non solo l’altra persona ma soprattutto me stessa. Se amare e stare con un’altra persona richiede, oltre al sentimento, tanta intelligenza, impegno e fatica, ancora di più ne sono richiesti al momento di una separazione: se non altro per il rispetto di ciò che siamo stati e di quello che siamo diventati oggi. Specie se dentro sappiamo che una parte di noi continua ancora ad amare l’altra persona. Sempre.

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