I prepotenti a scuola, quelli che per farsi belli agli occhi degli altri prendevano in giro o tormentavano i compagni più tranquilli, che loro reputavano gli “sfigati” semplicemente perché,  magari, di indole buona o particolarmente studiosi, sono sempre esistiti. Inutile dire il contrario,  perché quella del (presunto) “forte” che se la prende con il più debole, più facile da attaccare e quindi vittima perfetta di scherno e malignità, è una storia che si ripete dalla notte dei tempi.

Il problema è che la faccenda del bullismo ha assunto proporzioni esasperate contemporaneamente alla crescente importanza che i social media hanno guadagnato nelle vite di tutti i noi, e sull’impatto fortissimo che il loro ruolo socializzatore e comunicativo ha soprattutto sui giovanissimi.

C’è chi risponde al bullismo con un sonoro “no”, come ci mostra questo video, e chi invece, purtroppo, non riesce:

Apprezzamenti e popolarità da conquistarsi facilmente a suon di like e commenti sotto le proprie foto, successo sociale che si misura nel numero delle amicizie fittizie che si instaurano da dietro lo schermo di un pc o di uno smartphone; ma, e questo è indubbiamente l’aspetto più grave, anche la possibilità di ferire gratuitamente il prossimo, di far del male alle altre persone, celandosi dietro un’immagine profilo che può essere quella di chiunque, persino di un personaggio inventato.

Non c’è solo il pericolo, per gli adolescenti, di cadere intrappolati nella rete di qualche pedofilo, o di lasciarsi manipolare nel terribile gioco del Blue Whale (si discute ancora sulla sua veridicità e sui possibili collegamenti tra social e suicidi in massa tra i teenagers, ma l’allarme è comunque alto).

I nostri ragazzi oggi si trovano a fronteggiare bulli e prepotenti peggiori di quelli che chiedevano i soldi del pranzo, perché la loro potenza è amplificata dalle condivisioni, dai post che diventano virali, dai passaparola che corrono in Rete o dai gruppi WhatsApp creati ad hoc per tormentare le povere vittime che finiscono nel mirino. Insomma, quando la tecnologia fa del male, potremmo dire. E il risultato, angosciante, della berlina mediatica e virtuale (ma che diventa fisica in tutto e per tutto sulla pelle di chi la subisce) a cui i nostri figli sono potenzialmente esposti, può passare dall’avere un ragazzo che si chiude totalmente in se stesso, quando siamo fortunati, fino a un ragazzo che sceglie la via peggiore per far cessare quell’incubo in cui suo malgrado si trova a vivere: il suicidio. Tanti, troppi gli adolescenti che hanno preferito togliersi la vita piuttosto che continuare a lottare contro codardi capaci di essere grandi solo in gruppo, tanti quelli stanchi di sentirsi etichettare come “Gay”, o “Cicciona”.

Riportiamo il tema di un dodicenne, pubblicato su Repubblica, capace di mescolare finzione e realtà per trattare un argomento di una delicatezza estrema, fino a coinvolgere e a far riflettere i compagni di classe, che hanno chiesto scusa (non tutti) per gli atteggiamenti prepotenti. Il titolo della traccia era “Inventa un racconto in cui sono presenti i seguenti personaggi: una vittima, un gruppo di ragazzi prepotenti, degli spettatori, un adulto. Soffermati sui dialoghi e sugli stati d’animo dei diversi personaggi. Alla base del racconto può essere un fatto realmente accaduto o un episodio verosimile. Scegli un finale che preveda uno scioglimento positivo o una soluzione negativa“. Lo riportiamo integralmente.

Alcune persone all’apparenza stanno bene, ma muoiono dentro. Io sono Ivan e ho dodici anni. Vivo in una cittadina del Centro Italia, in una famiglia modesta, ma senza amici. Fin da quando ero all’asilo non ho mai amato i giochi da maschio: calcio, carte, giochi elettronici… A me non sono mai interessati. Preferivo stare con le femmine, più interessanti, a mio parere.
Ero diverso, non sbagliato. Venivo preso in giro, deriso davanti a tutti, perfino i miei amici partecipavano, per poi chiedere pateticamente scusa. “Mamma, ma perché mi trattano così? Cos’ho che non va?!?!”. “Tranquillo, amore: sono solo invidiosi!”. Io non credo proprio.
Poi arrivo alle elementari, un’occasione di riscatto, lasciando il passato alle spalle. La prima cosa che i compagni notano di me è la mia voce, acuta, squillante, diversa da quella degli altri maschi. Conoscevo qualcuno, ma erano proprio quelli che mi guardavano con più disprezzo. Ero solo, di nuovo.
Successivamente lego con due bambine, diventano le mie migliori amiche. Nonostante il nostro profondo legame cerco di stare lontano da tutte e due, temevo che se mi avessero conosciuto meglio se ne sarebbero andate. Le offese si ripetono, non erano pesanti, ma era il modo in cui le dicevano che mi feriva.
Passano quattro anni e arrivo in quinta. Le prese in giro gradualmente finiscono e riesco finalmente ad entrare nel “mondo dei maschi”. Francesco, Flavio, Domenico, Roberto: eravamo inseparabili. Con l’arrivo in questo nuovo “mondo” o semplicemente un “diverso punto di vista” (come diceva papà) alcune cose cambiano in me. Inizio a seguire la moda, carte e gameboy sparsi per tutta la camera. Ero felice, finalmente.
Nella classe però c’erano alcuni ragazzi più emarginati, capivo come si sentivano e cercavo di stare vicino anche a loro: Alfredo, Saverio, Livio e Mario. Purtroppo questo bellissimo anno finisce.
Iniziano le medie. C’erano tutti: Livio, Domenico ecc… Entro a testa alta, fiero dell’anno precedente. Ma magari avrei dovuto abbassarla. Ginnastica, il mio punto debole. Non essendo interessato agli sport non ne avevo mai praticato uno. “Tutti alla sbarra! Flessioni!” urla il prof di ginnastica. Fiero di me mi getto sulla sbarra, faccio più flessioni che posso. Ma poi mi fermo. Tutti mi guardano. Uno dei compagni rompe il silenzio: “Ma cosa sei? Una femminuccia?!? “. “Già: scommetto che non sai nemmeno saltare!”.
Tutti ridono, mi indicano come se fossi un fenomeno da baraccone. Ero a pezzi. “Omosessuale” “Trans” , ormai era così che mi chiamavano. Inizio con l’autolesionismo, una droga potentissima di cui non puoi più fare a meno. Mi chiedo come sarebbe bere quel bicchiere di candeggina sopra la lavatrice.
Un giorno vado al mare con Domenico e Francesco. Vedo in lontananza Alfredo, Saverio e Livio con cui avevo chiuso i rapporti. Si avvicinano e mi spingono a terra, sento un calcio, poi un altro ancora, iniziano a picchiarmi. Vedo Francesco e Domenico dietro di me, pietrificati, non reagiscono semplicemente perché non vogliono vedere. Mi lasciano a terra senza nemmeno la forza di piangere. Torno a casa e mi chiudo in camera.
Accendo il telefono “Cento nuovi messaggi dal gruppo antIvan”. Il gruppo l’aveva creato Alfredo, c’era tutta la scuola. Leggo solo insulti, nessuno mi difende. “Ivan” chissà se ricorderanno questo nome, una volta che non ci sarò più. Apro la finestra e mi lascio andare. È finita, finalmente in pace. Sono diverso, non sbagliato. 

Pensiamo che ciascuno di noi, ragazzino o adulto, dovrebbe leggere questo tema, perché il finale, ogni volta, sia diverso da quello scritto da “Ivan”.

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