“Se vai in giro mezza nuda, poi cosa ti aspetti?“: Siamo ancora qui

“Se vai in giro mezza nuda, poi cosa ti aspetti?“: Siamo ancora qui
Roba da Donne
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Siamo noi donne che spesso ci mettiamo nella condizione di essere considerate di facili costumi.

Una donna deve anche prendersi la responsabilità di ciò che fa e di ciò che dice.

Ci risiamo.

E forse, dovremmo metterci il cuore in pace, anche se l’idea non ci piace affatto, sarà sempre così.

Archiviato il 25 novembre, la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, i bei discorsi, le frasi toccanti e gli aforismi filosofici, le foto con la traccia di rossetto rosso con cui marcarsi lo zigomo come celebrazione della ricorrenza e le manifestazioni ostentate di solidarietà con cui racimolare tanti like e approvazione sui social, si può gettare via la maschera d’ipocrisia e tornare alla realtà di tutti i giorni, quella del “Certe donne se la cercano”, “Era una tossica, è normale che l’abbiano stuprata”, “Portava il tanga, allora ci stava, inutile lamentarsi dopo”.

Perché, per quanto ci faccia male ammetterlo, è questa la vera faccia del mondo in cui viviamo gli altri 364 giorni dell’anno: quello sempre pronto a tirare fuori parole come “radical chic”, “buonista”, perché non crede ai gesti e alle parole solidali di chi sceglie di schierarsi dalla parte dei deboli, degli emarginati, e poi mostra pomposo il petto gonfiandosi d’orgoglio per ricordare, una volta all’anno, che “le donne non si toccano nemmeno con un fiore”; perché in questo caso non si tratta di finto buonismo, no, ma di seguire la scia, di non farsi trovare impreparati di fronte al trend topic del giorno, di cacciare fuori l’hashtag giusto perché mica vorrai rimanere indietro rispetto agli altri.

Appare chiaro dai commenti, gli ennesimi, comparsi sotto la vignetta di Ekra che celebrava proprio la Giornata contro la violenza sulle donne.

Altre parole, altre frasi da brividi, altre teorie che, usando un eufemismo, si potrebbero definire “discutibili”, e invece vengono pure sostenute con forza da chi catechizza via social, nel tentativo di convincere chi legge della bontà del proprio pensiero, il quale, irrimediabilmente, come un mantra ossessivo, prevede sempre di instillare il dubbio di colpevolezza verso chi subisce lo stupro, il maltrattamento, l’abuso. Un po’ come successo sotto l’altra illustrazione della nostra disegnatrice, quella pubblicata dopo il caso irlandese in cui un perizoma indossato è stato usato come “argomento difensivo” dai legali di un presunto stupratore per convincere la giuria della consensualità del rapporto (e l’imputato è stato effettivamente assolto).

Le stesse, identiche, tristi e desolanti parole, che sbattono prepotentemente in faccia tutto il bagaglio di pregiudizio, sessismo, stereotipi e arretratezza mentale di cui i soggetti che se ne rendono autori sono pregni. La maggior parte di essi? Donne. Che è, se possibile, l’aspetto che ferisce e umilia di più, perché rende lampante, in maniera tanto chiara quanto deprimente, come la strada verso l’abbattimento delle barriere culturali, sociali, psicologiche sia ancora lunga e tortuosa. E come l’idea della “parità”, slogan-manifesto del femminismo storico, per alcune oggi abbia smesso di passare per l’uguaglianza di diritti, opportunità, possibilità, ma dal potersi esprimere “come farebbe un uomo”. Lanciando giudizi sulla “leggerezza” di alcune donne, sul celato esibizionismo che spinge a mettersi una minigonna o un top scollato, sul fatto che, una volta che finisci dentro al letto di qualcuno, poi non puoi più volerti tirare indietro.

Che poi, sia chiaro a scanso di equivoci, certe frasi, certi abomini verbali che, trincerandosi dietro la libertà d’espressione e mascherati da innocuo commento dalla frase di rito, “È solo una mia opinione, però…”, non sono accettabili mai. A prescindere da chi provengano. Dal sesso, dal genere, dal background culturale.

Ovvio, però, che il fatto che una buona percentuale provenga da altre donne, quelle che stanno dall’altra parte, che vittime, per loro fortuna, non lo sono mai state, ci spinge ad alcune riflessioni. Che non vogliono andare, per una volta, nella solita direzione, quella che dovrebbe essere banale e invece pare proprio non esserlo affatto, quella secondo cui il diritto all’autodeterminazione, manifestata anche attraverso un vestito, un atteggiamento, uno stile di vita, sia sacrosanto e inalienabile. No, altre considerazioni.

Su quanto si parli perché si crede davvero in quel che si dice quando si afferma che le donne hanno sempre e comunque la responsabilità delle proprie azioni, anche per quanto riguarda il modo di vestire o di vivere, e quanto invece le parole astiose e, a modo loro, violente, non siano piuttosto il frutto di una malcelata invidia, per la libertà, anche sessuale, di alcune, ad esempio.

Oppure, a proposito proprio di responsabilità, se a modo suo anche il puntare il dito contro le vittime non sia un atto, fatto con coscienza e consapevolezza, che può portare a conseguenze, talvolta gravi. Quella, per dirne una, di far scaturire altra violenza, di far sentire legittimato qualche altro mostro ad abusare, stuprare, molestare, perché tanto “gli altri capiranno, soprattutto le altre donne”. Insomma, sputare sentenze addobbandole con la premessa del “Non per giudicare nessuno, eh, sia chiaro” fa male. Dannatamente male. Ed è potenzialmente deleterio.

In terzo luogo, vogliamo tornare su un punto già accennato nel precedente articolo e, a nostro avviso, di fondamentale importanza, che è l’opinabilità dell’argomento in questione. Ogni donna ha diritto ad amare le minigonne e gli shorts così come a detestarli, ad ammiccare agli uomini senza per questo volersi spingere più in là, così come a non dare confidenza per troppo pudore o timidezza. E va benissimo, perché non ci sono modi “giusti o sbagliati” di essere donna, e anche qualora ci si allontanasse, per incoscienza, per colmare delle lacune, per immaturità o qualunque altro motivo, dalla “strada maestra” – come capitato a Pamela, come capitato a Desirèe – essere stuprate e massacrate non è mai un destino che ci si sceglie, né tantomeno che ci si merita.

Quello su cui invece non si può giudicare, né opinare, invece, è uno stupro. Perché cosa si prova lo sa solo chi l’ha passato, e leggere commenti in cui magari si insinua pure che se l’è cercata è paragonabile a essere violentate di nuovo. E perché lo stupro è un crimine, in cui non esistono attenuanti, ragioni o considerazioni che possano far oscillare l’ago della bilancia. La colpa sta tutta in chi lo compie, sempre. E mai, in nessun caso, quando si parla di stupro, dovrebbe esistere il giudizio sulla giovane che si  è vestita troppo da donna matura, sull’adulta che si è vestita troppo da giovane, sulla ragazza ubriaca o su quella che è uscita da sola alle undici di sera. A esistere, semmai, dovrebbero essere solo la rabbia, verso la violenza usata, la condanna del gesto o, se proprio si ha paura di sbagliare le parole, il salvifico silenzio.

L’ultimo punto della nostra riflessione, poi, è su chi banalizza il dolore che sta dietro alla scelta di restare in una casa dove si prendono solo botte e umiliazioni fisiche, riducendo il tutto a un “Se rimane, è una sua decisione”; perché quello di scappare, di denunciare, di allontanarsi, è il consiglio che chiunque di noi, umanamente, si sentirebbe di dare a una donna maltrattata tra le mura domestiche. E forse il pensiero del “Se ci resta, significa che le va bene”, è balenato per l’anticamera del cervello di molte di noi almeno una volta nella vita.

Peccato che poi la pratica ci insegni altro, ci parli delle denunce fatte e rimaste inascoltate, delle fughe tentate e non riuscite, e ci ricordi che esistono le donne che hanno denunciato e hanno pagato con la propria vita il prezzo del loro coraggio, come Stefania Formicola, come Mariarca, che per sfuggire all’ex aveva attraversato addirittura l’Italia.

O quelle che, per lo stesso atto eroico, hanno addirittura perso un figlio.

Non ce ne vogliano le signore i cui commenti abbiamo riportato in gallery, oscurando ovviamente foto e cognome, ma è troppo importante che tutti capiscano, attraverso gli esempi concreti, i loro commenti forse nemmeno troppo ragionati (questo, almeno, è quello che in cuor nostro speriamo), quanto siamo ancora lontani dallo scrollarci di dosso i pregiudizi sbagliati che sono un oltraggio vero a ogni donna vittima, in Italia e nel mondo, di violenza, e l’ipocrisia che serpeggia velatamente nelle vite di molti di noi, spingendoci a osannare il 25 novembre ciò che nel resto dell’anno condanniamo senza nemmeno sentirsi un po’ responsabili delle proprie parole. A loro, a queste signore, vogliamo lasciare non un monito, né un consiglio, ma questo.

“[…] Le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza nel 2017 sono 49.152, di queste 29.227 hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza.  Il 26,9% delle donne che si rivolgono ai centri sono straniere e il 63,7% ha figli, minorenni in più del 70% dei casi. Sono i dati raccolti dall’Istat che per la prima volta ha svolto l’indagine sui servizi offerti dai Centri antiviolenza, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità le regioni e il Consiglio nazionale della ricerca.
[…]
Da gennaio a ottobre sono state oltre 70 le donne uccise per mano di chi diceva di ‘amarle’. Da gennaio a fine luglio sono state 1.646 le italiane e 595 le straniere che hanno presentato denuncia per stupro. L’Istat stima che siano 1 milione 404mila le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di un collega o del datore di lavoro. Incalcolabili gli episodi di sessismo, che permeano la vita delle donne: obbligare una donna a cambiare strada perché davanti a quel bar le dicono battute oscene, subire apprezzamenti non graditi sul proprio corpo o su come è vestita, la scelta delle aziende di assumere più uomini che donne, il divario salariale tra uomo e donna, l’incessante prova delle donne per dimostrare la propria competenza e professionalità, il carico del lavoro di cura che pesa quasi totalmente sulle donne, le immagini pubblicitarie che schiacciano le donne in ruoli stereotipati, spesso umilianti”.

[Da un articolo di Repubblica, 23 novembre 2018].