Un coltello nello sterno: la violenza sulle donne vista ai raggi x

Un coltello nello sterno: la violenza sulle donne vista ai raggi x
Fonte: ph. Marzia Bianchi
Foto 1 di 11
Ingrandisci
L’invisibilità non è un superpotere. È questo il messaggio della mostra fotografica curata dalla fotografa Marzia Bianchi in collaborazione con la Fondazione Pangea, la Onlus che si occupa di donne in tutto il mondo e che, in Italia, ha ideato REAMA, la Rete di Empowerment e Auto-Mutuo-Aiuto.
Perché la scelta di queste parole, perché il riferimento all’invisibilità? Il sottotitolo della mostra è Fotografie e lastre per dire no alla violenza sulle donne, perché a essere esibite sono proprio le radiografie di alcune donne, ovviamente rimaste anonime, vittime di maltrattamenti e abusi domestici, fornite per concessione dell’Azienda ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma e dall’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.
Donne le cui ferite sono invisibili, appunto, come spesso accade nei casi di violenza, quando non sempre c’è un occhio nero o un livido a far comprendere la gravità della situazione; ma anche donne che sono esse stesse invisibili, che scelgono di rimanerlo per paura, che hanno troppo timore per poter denunciare il proprio aguzzino.
Donne che hanno scelto un’invisibilità che lascia impuniti molti uomini e li fa in qualche modo sentire “legittimati” a considerare le compagne, le ex, spesso persino delle sconosciute, delle “proprietà”.
Le donne che hanno accettato di mostrare le proprie radiografie sono tutti arrivate nei Pronto Soccorso dichiarando di aver subito violenze. Hanno, insomma, avuto il coraggio di sollevare il velo, di mostrare ciò che davvero significa vivere con un uomo violento, a dispetto di quanti ancora si ostinino a portare avanti la bandiera del negazionismo contro il femminicidio o a parlare di “solita esagerazione femminista”.
Questi sono i segni che calci, pugni, ma anche le armi, lasciano nei corpi di queste donne; quelli psicologici, invece, sono anch’essi presenti nella mostra, raccolti dalle tantissime (purtroppo) testimonianze accolte dallo sportello antiviolenza on line di Reama, che a riconoscere i segni della violenza dedica anche un’apposita sezione sul proprio sito.
Per approfondire i temi di questa mostra, ora esposta (fino al 6 febbraio) a Roma al We Gil, abbiamo parlato con Marzia Bianchi, autrice delle foto, e con la dottoressa Maria Grazia Vantadori, chirurga presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale San Carlo e referente del CASD (centro ascolto donna ospedale San Carlo) nonché membro di Reama.
Come prima cosa chiediamo, quali sono i simbolismi dietro la scelta di mettere in mostra le radiografie delle donne vittime di violenza?
Solitamente si fa riferimento alla violenza di genere con un’iconografia molto precisa che vede il livido o il taglio, o il rivolo di sangue – ci spiega Marzia – come unici simboli della violenza e in qualche modo come se la violenza si fermasse all’epidermide e quindi solo all’esteriorità. La radiografia rappresenta un’analisi più approfondita ma, oltre a essere una prova di quello che succede al corpo, è simbolicamente un modo per andare più a fondo e declinare tutte le altre forme di violenza (economica, assistita, psicologica) che non lasciano lividi e segni visibili“.
Chiediamo chi sono queste donne, cosa raccontano all’arrivo in Pronto Soccorso, quante di loro mentono spiegando di essere “cadute dalle scale”, quante invece raccontano la verità.
“Attraverso la mostra provo a raccontare tante storie diverse, quelle delle radiografie del San Carlo e del San Camillo non vanno intesi come ‘semplici’ casi a fini statistici territoriali, ma sono il riflesso di una condizione che molto spesso si ripete nelle storie e nelle vite di donne che provengono da tutto il territorio nazionale e dai contesti sociali più disparati. Poi ci sono le storie delle donne che abbiamo conosciuto e accolto con Reama, e le storie di alcune donne che fanno parte della rete stessa. 
Quando arrivano al Pronto Soccorso, così come quando scrivono o chiamano lo sportello, alcune raccontano l’accaduto così come è stato, altre no perché hanno paura non solo del partner, ma anche di non essere credute o di essere giudicate. Alcune donne invece non sono pronte per parlare e denunciare l’accaduto. Altre donne ancora, non riconoscono la violenza per diversi motivi.
Sul nostro sito abbiamo inserito un test per riconoscere la violenza e invitiamo spesso le donne che ci contattano a farlo, alcune invece si mettono in contatto con noi proprio dopo averlo fatto. 
Tornando al Pronto Soccorso, il personale che queste donne trovano dall’altra parte, se formato, può fare sicuramente la differenza come in tutti gli altri contesti come nei Centri anti violenza, nelle caserme, nei tribunali”.
Esaminando le radiografie si capisce subito che sono donne vittime di violenza?
“[A questa domanda risponde la dottoressa Vantadori, ndr.] Si può subito capire che sono donne. Poi nel caso specifico si sa da quanto riportato anamnesticamente dalla donna. Per quel che riguarda le lastre che ho portato, sono state accolte e ascoltate da Casd. C’è sempre il sospetto che quello che le donne narrano siano menzogne: maledetto pregiudizio! Se una racconta di aver ricevuto un pugno sul naso dal partner che motivo ho di prendere con riserva quel che dice?
Dopo Milano, come detto la mostra è ora in esposizione a Roma, e alcune scolaresche dei licei l’hanno visitata lavorando poi in dei laboratori tematici, ci spiega Marzia; un modo importante e costruttivo per educare alla gender equality fin da giovani, e per dare un segnale forte alle giovani generazioni rispetto alla violenza di genere.
Dopo l’esperienza romana, a marzo la mostra si sposterà in provincia di Frosinone, in cui ci saranno altri eventi collaterali e collaborazioni. Queste donne non devono rimanere invisibili. Nessuna donna vittima di violenza deve rimanere invisibile. 

  • Le interviste di RDD