Piergiorgio Welby fu, assieme a Beppino Englaro, papà di Eluana, fra i primi a porre l’accento, in Italia, sulla questione del fine vita e sul diritto all’eutanasia, cioè alla scelta, libera e serena, della propria morte.

E, dopo la sua morte, nel 2006, è stata sua moglie, Mina, a continuare la sua battaglia per il diritto di scegliere quando e come dare l’addio a una vita non più giudicata tale, diventando tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni che da anni lotta per la legge sul fine vita nel nostro Paese.

Proprio Mina, assieme a Marco Cappato, co-presidente dell’Associazione Coscioni che aiutò dj Fabo a morire, nel 2017, è stata assolta, il 27 luglio 2020, dall’accusa di aiuto al suicidio nel caso di Davide Trentini, il cinquantatreenne affetto da sclerosi multipla da 24 anni, morto in Svizzera nel 2017, accompagnato appunto dalla vedova Welby e da Cappato.

Per i due il pm di Massa, Marco Mansi, aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi di carcere, il minimo, in quanto consapevole delle motivazioni che li hanno spinti ad agire in questo modo.

Chiedo la condanna ma con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito.

Quattro, infatti, sono i requisiti richiesti affinché il reato di aiuto al suicidio non sussista, ovvero che il paziente sia:

  • tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
  • affetto da una patologia irreversibile.
  • fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma
  • pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli

La Corte di Assise massese è stata però chiamata a valutare fatti anteriori alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/19, che ha legalizzato l’aiuto al suicidio a condizioni specifiche, e proprio per questo Cappato e Mina Welby sono soddisfatti, riconoscendo la sentenza come

un altro passo avanti verso un più ampio riconoscimento del diritto ad essere aiutati a morire.

In particolare, il caso di Trentini costituirà un precedente importante proprio perché l’uomo non era legato a macchinari che lo tenevano in vita.

È una decisione importante – spiega Filomena Gallo, coordinatrice del collegio difensivo di Cappato e Welby e Segretario Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni – perché chiarisce che il requisito, per il malato, della presenza di trattamenti di sostegno vitale non è limitato alla sola presenza di macchinari ma comprende anche trattamenti farmacologici e di assistenza come nel caso di Davide.

In un Paese storicamente legato alla sua tradizione culturale religiosa, che pur nella sua laicità risulta fortemente influenzato dalla presenza sul proprio territorio dello Stato Vaticano, si sono dovuti aspettare molti anni affinché il diritto dei malati a decidere della propria vita, e quando interromperla, fosse tutelato da una legge apposita, arrivata solo nel gennaio del 2018, approvata il 14 dicembre 2017 in via definitiva al Senato, con 180 voti favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti; la legge 22 dicembre n.219, che ha sancito la possibilità, per ogni paziente in condizioni irreversibili, di lasciare il proprio testamento biologico, in cui è garantito il rispetto a non andare avanti con le cure, l’incapacità, per i medici, di proseguire con le terapie senza il consenso informato della persona che le necessita, e l’impegno a non prolungare accanimento terapeutico, nutrizione e idratazione artificiale se il malato chiede espressamente che vengano interrotte. Inoltre, esula il medico che segue le direttive del paziente da responsabilità civili e penali.

Quest’ultima norma è stata pensata proprio per scongiurare che i medici che prestano attenzione alle richieste del malato si trovino implicati in processi per “assistenza al suicidio”, esattamente come accaduto a Mario Riccio, il medico che, nel 2006, staccò la spina dai macchinari che tenevano artificialmente in vita proprio Welby, e che fu sì prosciolto dal Gup e riabilitato dall’Ordine dei Medici di Cremona, ma prima finì sotto inchiesta.

La storia di Mina e Piergiorgio

Piergiorgio Welby, del resto, che da quando aveva solo 16 anni lottava con la sua malattia degenerativa, ha passato tutta la vita chiedendo che il rifiuto all’accanimento terapeutico e il riconoscimento del diritto all’eutanasia venissero approvati nel nostro paese, esattamente come, nel tempo, è accaduto in altri Stati. È stato co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, un altro che di questa battaglia civile ha fatto una ragione di vita, tanto che oggi, sul suo sito, si trovano tutte le informazioni sul testamento biologico in Italia, sui centri e i paesi in cui esistono i registri a cui iscriversi per siglarlo, e sulle iniziative prese dalle varie regioni per far rispettare la legge 219.

È certamente stato un percorso lungo e complesso, che ha avuto molti interpreti e ha coinvolto moltissimo l’opinione pubblica, spaccata letteralmente fra i sostenitori del diritto a scegliere quando e come morire, e quelli della morte per cause naturali sempre e comunque.

Mille ragioni diverse sono entrate in gioco in questi anni: etiche, morali, umanitarie. Si è parlato di sacralità della vita e di dignità del malato, di suicidio e di dolce morte, di principi religiosi e di diritti civili. E solo grazie alla lotta coraggiosa di persone come Welby, Coscioni, ma anche, più avanti, dj Fabo, si è infine raggiunto l’obiettivo di concedere al malato l’opportunità di essere l’unica, e ultima voce, ad esprimersi sulla propria vita.

Piergiorgio era affetto da distrofia muscolare in forma progressiva (distrofia muscolare di Becker, per alcuni, distrofia di Duchenne per altri) da quando aveva 16 anni circa. La malattia, progredendo lentamente gli impedì di proseguire gli studi, finendo con il renderlo immobile a letto, pur mantenendo una mente lucidissima.

Negli anni ’60 e ’70 cercò sollievo palliativo facendo uso di droghe, e cercò di distogliere il pensiero dalla sua condizione dipingendo e scrivendo; proprio in quegli anni incontrò anche Wilhelmine Schett, nota come Mina, che divenne l’amore della sua vita, la donna che gli restò a fianco fino all’ultimo dei suoi giorni, combattendo silenziosamente la sua stessa battaglia per il diritto di scegliere di morire.

Dopo una crisi respiratoria, nel 1997, fu proprio lei a chiamare i soccorsi, e da quel momento Piergiorgio fu attaccato a un respiratore per continuare a vivere, nonostante fosse chiaramente in disaccordo con tale trattamento. Dopo la tracheotomia cui accettò di sottoporsi una volta uscito dal coma, Welby chiese più volte che gli fosse staccata la spina, incontrando per anni il muro istituzionale.

Per far conoscere la propria situazione aprì nel 2002 un forum sull’eutanasia nel sito dell’Associazione Luca Coscioni, e un blog personale.

Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio essere.

Scrisse in una lettera del 2006, inviata al Tg3, chiarendo una volta di più quale fosse la sua intenzione; nel settembre dello stesso anno inviò una lettera all’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendo il riconoscimento del diritto all’eutanasia, missiva a cui quest’ultimo rispose auspicando l’apertura di un dibattito politico sul tema.

Riuscì finalmente a farsi ascoltare il 20 dicembre del 2006, quando, a seguito del distaccamento del respiratore artificiale e previa somministrazione di sedativi, aiutato da Riccio, morì.

La sua vedova, Mina, in un’intervista per Agorà rilasciata dopo l’approvazione della legge 219, spiegò:

Piergiorgio non voleva morire, ma non voleva più soffrire. Sapeva che non c’era altra via d’uscita che la morte ed era arrivato a un punto in cui solo il morire può aiutare a vivere fino alla fine. Voleva vivere la morte.

Aggiungendo che, la sera della sua morte, aveva trovato persino il coraggio di scherzare:

Andate un po’ più in là che devo morire. – disse – È la prima volta.

A La Stampa, più recentemente, Mina Welby ha inoltre parlato dell’importanza di garantire il diritto al suicidio assistito o, come lei lo definisce, “il diritto a non soffrire”, auspicando l’approvazione di una legge sul tema.

Il diritto a morire è secondario, rispetto al diritto di vivere gli ultimi momenti con dignità e senza soffrire più.

Mentre nel settembre 2019, durante la manifestazione Liberi fino alla fine organizzata dall’associazione Luca Coscioni a Roma la vedova Welby ha affermato ancora:

Io vorrei ribadire quello che Piergiorgio ha sempre detto: la morte deve essere possibile quando la persona vuole uscire dal corpo perché il corpo non ce la fa più, diventa troppo pesante per la persona. È una battaglia di civilà e laicità, questa è l’eutanasia che vogliamo e che deve essere a volte procurata con una somministrazione di una medicina da parte del medico.

Piergiorgio Welby ha raccontato la sua storia, e la sua battaglia, in un libro dal titolo estremamente significativo, Lasciatemi morire.

Lasciatemi morire

Lasciatemi morire

Il libro testamento di Piergiorgio Welby, morto nel 2006 dopo anni passati a rivendicare il diritto di scegliere quando morire, che ha riacceso il dibattito sull'eutanasia in Italiaò.
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In gallery abbiamo ripercorso le tappe e i protagonisti principali della battaglia per il fine vita.

L'infinito amore di Mina Welby, per Piergiorgio, per la libertà e per la vita
Fonte: web
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