Qualche settimana dopo la strage di Capaci, nel maggio del 1992, Paolo Borsellino, intervistato da Lamberto Sposini, parlava di se stesso come di “un cadavere che cammina”. La stessa cosa la ripeté a un giovanissimo Salvo Sottile che correva per tutta Palermo per intervistarlo. Poco prima della morte, il magistrato disse “Quel tritolo è arrivato per me” commentando una segnalazione contenuta in un rapporto dei Ros. Era, insomma, consapevole di trovarsi di fronte a un destino senza scelta e dall’epilogo già segnato.

Nel giugno del 1992, invece, una giovanissima poliziotta, che aveva seguito il sogno della sorella Maria Claudia di entrare nelle forze dell’ordine (quest’ultima, però, non fu ammessa) venne assegnata alla scorta del magistrato, dopo aver seguito l’allora onorevole Sergio Mattarella, la senatrice Pina Maisano Grassi e aver piantonato il boss Francesco Madonia, mentre l’Italia ancora piangeva Giovanni Falcone, ucciso con la moglie Francesca e gli agenti della scorta nella strage di Capaci avvenuta quello stesso 23 maggio.

Proprio in seguito a quell’attentato di matrice mafiosa i genitori di questa giovane poliziotta temevano per la sua vita, tanto che lei dovette rassicurarli, dicendo loro che non le sarebbe successo nulla.

Forse nelle sue parole c’era solo la volontà di tranquillizzare mamma e papà, rimasti a Sestu, nel cagliaritano, mentre lei seguiva quello che era il suo mestiere e la sua passione, forse Emanuela Loi ci credeva davvero, che avrebbe avuto davanti a sé una vita lunga e serena, che quella professione l’avrebbe fatta per tanti anni, fino alla pensione.

Invece, la sua esistenza fu spezzata, insieme a quella di altri quattro colleghi e del magistrato Borsellino, in un’assolata domenica pomeriggio, alle 16:58 del 19 luglio 1992, nella stretta via Mariano D’Amelio, quando una Fiat 126 rubata, caricata con circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H (una letale miscela di PETN, tritolo e T4) fu fatta esplodere attraverso un dispositivo telecomandato, proprio sotto il palazzo al numero 21, dove risiedeva la madre del giudice, che il figlio voleva andare a trovare.

Borsellino da tempo parlava di se stesso come di “un cadavere che cammina” perché, in cuor suo, dopo la morte dell’amico e collega Falcone, sapeva che Cosa Nostra non gli avrebbe lasciato scampo, che l’avrebbero trovato dovunque e dovunque l’avrebbero ammazzato. Persino sotto casa della mamma.

Emanuela no, forse non sapeva che la mafia le avrebbe riservato lo stesso, crudele destino, quello di diventare un eroe della patria perdendo la vita lì, in quella strada che, pure, era considerata molto pericolosa perché stretta, tanto che, come rivelato in una intervista rilasciata alla RAI da Antonino Caponnetto, magistrato a lungo alla guida del Pool Antimafia, alle autorità di Palermo era stato chiesto di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, richiesta che rimase però inascoltata.

Oggi a Emanuela Loi, prima donna a morire in servizio in Italia, sono state intitolate scuole a Genova, Sestu, Carbonia, Roma, strade, ponti e parchi in tutto il paese, mentre il suo ricordo è portato avanti dalla sorella Claudia, proprio colei che le aveva ispirato il sogno di diventare poliziotta, la quale continua a parlare di Emanuela nelle scuole e grazie all’associazione antimafia Libera, fondata e presieduta da Don Luigi Ciotti.

A lei, e ai suoi colleghi uccisi dall’odio della mafia, va ancora oggi il ricordo, commosso e silenzioso, di tutta quell’Italia che nelle morti di Borsellino, Falcone, dei loro agenti di scorta e di tutte le vittime di Cosa Nostra vede ancora una ferita aperta e mai rimarginata, quell’Italia che però ha creduto in loro e nella loro missione e li porta nel cuore come eroi ed eroine “normali”, voci di un paese che voleva e ha saputo ribellarsi e dire “no” al crimine. Anche a costo della propria vita.

Emanuela Loi e gli altri angeli di Paolo Borsellino che saltarono in aria con lui
Fonte: peopleforplanet.it
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