Alfredino Rampi, il bambino che morì nel pozzo e il destino crudele del fratello

Nel giugno del 1981 tutta l'Italia seguì con ansia la vicenda di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano e purtroppo morto dopo 3 giorni di agonia e di tentativi disperati di soccorrerlo. A distanza di 34 anni anche il fratello ebbe un destino crudele.

Tra le grandi tragedie contemporanee del nostro paese quella del piccolo Alfredino Rampi rientra senz’altro fra quelle che più hanno sconvolto il pubblico. A lungo tutta l’Italia ha sperato e pregato per la sorte del piccolo, caduto in un pozzo artesiano sulla via di Vermicino, nei pressi di Frascati, nel giugno del 1981, e si è appassionata alla sua vicenda, seguendone quotidianamente gli sviluppi, i tentativi di soccorso, gli appelli disperati dei genitori e persino l’intervento dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Tutto fino al drammatico epilogo, con il fallimento di tutte le soluzioni provate dai soccorritori giunti numerosissimi nella zona, e la notizia della morte del bimbo, il 13 giugno, a soli 6 anni.

La famiglia Rampi ha dovuto convivere, negli anni, con l’angosciosa assenza del figlio primogenito, morto in maniera tragica, ma certamente il destino non le ha sorriso neppure più avanti: nel maggio 2015, infatti, anche il secondo figlio di Ferdinando e Francesca, Riccardo, ha perso la vita, ad appena trentasei anni.

Il fratello di Alfredo stava festeggiando un addio al celibato in un locale, quando ha accusato un malore che gli è risultato fatale. Riccardo Rampi era cardiopatico, e ha lasciato la moglie e due figlie, oltre ai genitori, già devastati per il ricordo della morte terribile di Alfredino, catturato da un pozzo che l’ha restituito solo cadavere.

Ripercorriamo di seguito i momenti più drammatici e intensi della sua dolorosa storia, una ferita mai rimarginata nel cuore dell’Italia, che si è scoperta improvvisamente fatta di mamme e papà del piccolo, e si è risvegliata affranta dalla notizia più brutta.

La scomparsa di Alfredino

Mercoledì 10 giugno, di sera, Ferdinando Rampi, padre di Alfredo, esce a fare una passeggiata in compagnia di due suoi amici e del figlio, nella campagna circostante. Verso le 19:20, Alfredo chiede al padre di poter continuare il cammino verso casa da solo, attraversando i prati. Ferdinando acconsentì, ma quando rientrò, verso le 20:00, scoprì che il bambino non era mai arrivato. Dopo circa mezz’ora, i genitori cominciarono a cercarlo nei dintorni, finché alle 21:30 circa allertarono le forze dell’ordine.

Polizia, Vigili urbani e Vigili del fuoco, oltre ad alcuni abitanti del posto, attratti dal viavai, giunsero sul posto, unendosi ai genitori nelle ricerche del piccolo, portate avanti anche con l’aiuto delle unità cinofile. La nonna Veja fu la prima a ipotizzare che Alfredo fosse caduto in un pozzo profondo circa 80 metri, scavato di recente in un terreno adiacente, dove una nuova abitazione era in costruzione; eppure il pozzo venne trovato coperto da una lamiera tenuta ferma da sassi.

Giorgio Serranti, brigadiere di polizia, saputo dell’esistenza del pozzo fece rimuovere la lamiera, infilò la sua testa nell’imboccatura, riuscendo così a udire i lamenti di Alfredo. Si scoprì poi che il proprietario del terreno aveva messo la lamiera sulla fessura verso le 21:00, senza minimamente immaginare che all’interno ci fosse intrappolato un bambino.
Amedeo Pisegna, insegnante di applicazioni tecniche e proprietario del terreno, verrà in seguito arrestato con l’accusa di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.

I tentativi di soccorso disperati

Nel giro di pochi minuti i soccorritori si radunarono all’imboccatura del pozzo, e fu fatta scendere una lampada, per localizzare il bambino. La prima stima rilevò che Alfredo era bloccato a 36 metri di profondità, poiché la sua caduta era stata arrestata da una curva o da una rientranza del pozzo.

Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili, per via delle dimensioni del pozzo, con un’imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri e pareti piene di sporgenze e rientranze. Si cercò dapprima di calare nell’imboccatura una tavoletta legata a corde, per permettere ad Alfredo di aggrapparvisi, ma la scelta si rivelò totalmente errata, dato che la tavoletta si incastrò nel pozzo a 24 metri, ben al di sopra di Alfredino, e non fu più possibile rimuoverla. La corda che la teneva, infatti, si era spezzata, ostruendo di fatto il condotto con la tavola. All’una di notte alcuni tecnici della Rai, allertati allo scopo, piazzarono una telecamera nelle vicinanze e calarono nel pozzo un’elettrosonda a filo, per permettere ai soccorritori di comunicare con Alfredino, che, al momento, rispondeva in maniera lucida.

Si pensò poi di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che permettesse di penetrare nella cavità poco sopra il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. La sonda di perforazione atta a tale scopo fu trovata alle 6:00 dalla ditta Tecnopali di Roma, grazie anche al giornalista del TG2 Pierluigi Pini, che avendo visto un appello su una TV locale mise a disposizione la sua.

Il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli ordinò di sospendere i tentativi degli speleologi per concentrare gli sforzi nella perforazione del “pozzo parallelo”. La geologa Laura Bortolani ipotizzò, esaminando il terreno, che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e propose quindi di proseguire anche con gli altri tentativi nel pozzo in cui si trovava Alfredino. Secondo Tullio Bernabei il suggerimento sarebbe stato respinto da Pastorelli, che avrebbe ordinato agli speleologi di sgomberare.

Alle 8:30 la sonda cominciò a scavare, riuscendo a calare di 2 metri in due ore visto il terreno friabile; ma alle 10:30 , come previsto dalla dottoressa Bortolani, l’apparato incontrò uno strato di roccia granitica dura e difficile da scalfire. Alfredino intanto si lamentava per il rumore e alternava momenti di veglia a colpi di sonno, e aveva cominciato anche a chiedere da bere.

Verso le 13:00, su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un’altra perforatrice, più grande e potente della prima. Nel frattempo i TG nazionali cominciarono a occuparsi della notizia, anche se molte informazioni trasmesse si rivelarono poi inesatte; ad esempio, quella che, secondo il comandante Pastorelli, la perforazione si sarebbe conclusa e l’operazione di salvataggio sarebbe andata a buon fine.
La zona fu assediata non solo dai media, ma anche da moltissimi curiosi, tanto che iniziarono ad arrivare anche i venditori ambulanti di cibo e bevande; la folla probabilmente contribuì a rallentare ulteriormente i soccorsi.

Alle 16:00 entrò in azione la seconda perforatrice, ma alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e 4 centimetri: la sonda aveva ancora difficoltà a scavare. Elvezio Fava, primario di rianimazione all’ospedale San Giovanni, fu chiamato per controllare le condizioni di salute del bambino, che era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre. Alfredino però stava ancora bene.

Alle 20:00 entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo e agile, e fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero, per tentare di dissetare Alfredino.

Alle 23:00 Isidoro Mirabella, un manovale siciliano cinquantaduenne, volontario, fu autorizzato a scendere nel pozzo, ma, a causa di ostacoli tecnici, non riuscì ad avvicinarsi a sufficienza al bambino, anche se poté parlargli.

Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice era scesa soltanto a 25 metri di profondità. I soccorritori intanto parlavano con il bambino, che aveva cominciato a piangere dicendo di essere stanco, tramite l’elettro-sonda.

Alle 10:10 lo scavo parallelo era arrivato a 30 metri e 5 centimetri in profondità, mentre un ingegnere dei vigili del fuoco rivalutò la posizione del bimbo, da 36 metri a 32,5. Alle 11:00 arrivò sul posto una scavatrice a pressione per scavare il tunnel di connessione, che però si bloccò poco dopo l’accensione. Tre vigili del fuoco cominciarono quindi a scavare a mano, anche perché Alfredo aveva smesso di rispondere ai soccorritori, e i medici presenti sul posto, che ascoltavano il suo respiro, riferirono che stava peggiorando: aveva solo 48 espirazioni al minuto.

Alle 16:30 arrivò sul posto anche il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.

Alle 19:00 il cunicolo orizzontale fu completato e il pozzo di Alfredino messo in comunicazione con il pozzo parallelo, a 34 metri di profondità. Ma il bambino, probabilmente anche a causa delle vibrazioni causate dalla perforazione, era scivolato molto più in basso. Bernabei fu calato nel secondo pozzo, calò una torcia legata a una cimetta per calcolare la posizione del bimbo in maniera almeno approssimativa, con un esito terribile: Alfredino era a circa 60 metri di profondità.

L’unica possibilità rimasta era la discesa di qualche volontario lungo il pozzo artesiano, fino a 60 metri di profondità. Il primo fu uno speleologo, Claudio Aprile, che si pensò di introdurre nel pozzo artesiano dal cunicolo orizzontale, fino a che non si notò che l’apertura di comunicazione era troppo stretta per permettere di accedere da lì al pozzo artesiano. Lo speleologo dovette perciò rinunciare.

Il coraggio di Angelo Licheri

Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro accettò di farsi calare nel pozzo artesiano per tutti i 60 metri di distanza dal bambino. La sua discesa cominciò poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno: Licheri riuscì ad avvicinarsi al bambino, tentò di allacciargli l’imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l’imbracatura si aprì; tentò allora di prenderlo per le braccia, ma Alfredino scivolò ancora più in profondità. Nel tentativo di salvataggio Alfredo si ruppe anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù ben 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, ma alla fine dovette desistere.

Dopo Licheri altri volontari provarono a salvare Alfredino, fra cui nani, esperti di pozzi e anche un contorsionista circense. Alle 3:00 venne imbracato, per un altro tentativo, Pietro Molino, un sedicenne originario di Napoli, ma il magistrato presente sul posto lo fermò, perché minorenne e sprovvisto dell’autorizzazione dei genitori, proprio quando stava per effettuare la discesa.

L’epilogo

Verso le 5:00 del mattino ebbe inizio il tentativo di Donato Caruso, che provò a imbracare Alfredo, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che aveva usato scivolarono via. Effettuò altri tentativi, ma alla fine tornò in superficie, riportando con sé anche la notizia della probabile morte di Alfredino.

Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi.

Con questo annuncio Giancarlo Santalmassi comunicò la morte del bambino, durante l’edizione straordinaria del Tg2 del 13 giugno 1981.
Dopo la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo nel pozzo fu immesso dell’azoto liquido a −30 °C. Il cadavere del bambino fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, 28 giorni dopo la sua morte.

I ventuno minatori furono allertati quando ormai ogni speranza era sfumata e si trattava soltanto di recuperare la salma per darle una degna sepoltura.

34 anni dopo la morte di Alfredo, anche il fratello minore, Riccardo, morì a soli 36 anni. Riccardo, cardiopatico, festeggiava un addio al celibato in un locale quando è stato colto da un malore. L’ambulanza, allertata in tempi brevi, lo ha portato all’ospedale Sant’Eugenio, ma per lui non c’è stato nulla da fare.

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