Perché dovremmo essere tuttə veganə

Dovremmo essere tuttə Veganə. Non si tratta di uno slogan, quanto più di una constatazione di fatto. Se tutti lo diventassimo, domani, le positività di tale scelta scuoterebbero in maniera pervasiva l’intero sistema, facendolo barcollare, forse - e finalmente -fino a farlo crollare. 

Dovremmo essere tuttə Veganə. Non si tratta di uno slogan, quanto più di una constatazione di fatto. Se tutti lo diventassimo, domani, le positività di tale scelta scuoterebbero in maniera pervasiva l’intero sistema, facendolo barcollare, forse – e finalmente -fino a farlo crollare. 

L’intersezionalità delle lotte non può più continuare a supportare l’oppressione animale e le criticità che ne derivano, ma andiamo per gradi. 

Da soggetto a oggetto

Il primo legame tra femminismo e consumo di animali sta in quello che Carol J. Adams chiama referente assente, la strategia di oggettificazione di cui donne e animali non umani sono oggetto e che passa attraverso la negazione della voce. Le donne sono tutt’ora penalizzate e allontanate dal processo costitutivo e creativo, sia sul piano degli accessi al lavoro sia su quello del riconoscimento politico.

Gli animali, dal canto loro, sono silenziati nell’espulsione, allontanando la loro uccisione sistemica e i capanni dove vengono sfruttati, vengono mutati, percepiti dalle persone che li consumano come pezzi di muscoli avvolti nella plastica deposti ordinatamente nei frigoriferi. Ordinati per taglio e prezzati al peso. L’animale nel processo di acquisto, non esiste. Similmente, le donne sono misurate in base alle loro caratteristiche sessuali e materne. I corpi vengono sessualizzati ancora prima dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari e del raggiungimento della maturità sessuale fisica.

In strada e negli ambienti condivisi sono cognitivamente fatti a pezzi, osservati per attribuirvi un valore di gradimento. All’aumentare dell’età il corpo femminile non è più misurato solo in ottica di desiderio, anzi viene gradualmente allontanato da quel contesto e affiancato alla dimensione materna, produttiva, incentrando in essa il valore e il fine dell’esistenza di chi abita tale corpo.

Con l’infertilità, le donne vengono nuovamente ricalibrate e sottoposte ad una valutazione dell’utilità, se possono prestare servizio di cura, la società riconosce loro un ruolo, in caso contrario non godono della stessa attenzione della controparte maschile che nella saggezza del capo famiglia trova legittimità esistenziale e rispetto per cui diventa ricevente di cure.

Carne e sesso

 La carne stessa è oggetto di sessualizzazione, desiderio e possesso si sublimano nel consumo. La carne è infatti simbolo del maschile e del potere. Il maschile stereotipato nella sua accezione nociva consuma carne perché, si sa, è roba da uomini. Da essa acquisisce forza – metaforica più che reale considerando che persino l’OMS, ha riconosciuto la carne come cancerogeno – e mostra la sua capacità di dominare, attraverso un consumo che presuppone la violenza dell’abuso, dello sfruttamento e dell’uccisione. Disporre della vita e farlo a un prezzo è espressione di dominio. Gli animali macellati sono ascritti al regime dei beni in quanto identificati come domestici non da compagnia, a differenza di cani e gatti.  

La proprietà è a tutti gli effetti l’artificio retorico con cui si cela alla vista lo sfruttamento di sistema. Il potere che emana dalla carne e dal suo uso alimentare è squisitamente capitalista. 

La carne come panacea per la classe media

Prima della seconda guerra mondiale, in Europa, il consumo di carne era concentrato nelle mani dei ricchi, retaggio degli sfarzi dell’aristocrazia che poteva permettersi a tutti gli effetti l’uccisione di bestie che i contadini usavano per garantirsi un reddito minimo con la produzione di latte e formaggio. Dopo la seconda guerra mondiale e con l’avvicendarsi del fordismo, la carne è diventata un bene diffuso, una panacea per le classi medie in cerca di realizzazione economica.

La carne e i suoi sottoprodotti sono uno status symbol con cui il sistema ha obliterato le reticente, usando le bestie infatti, questo ha potuto fingere di star allargando la cerchia della ricchezza, quando a tutti gli effetti stava semplicemente generando un guadagno per i pochi già più privilegiati a scapito di categorie, quella animale e quella lavoratrice, oppresse.

La violenza come routine di lavoro

La dissociazione cognitiva necessaria ad integrare la violenza nella propria routine lavorativa è un’imposizione implicita che grava sul lavoratore, costretto dal ricatto dello stipendio, ad accettare come normale le procedure di gestione delle bestie che comprendono la mutilazione, il maneggiamento rapido e l’uccisione delle stesse. 

Assorbire la violenza come procedura significa accettarla, doverla accettare, sotto certi aspetti. Un lavoro psicologico, questo, che rischia di integrare la violenza come parte integrante della vita della classe lavoratrice che non a caso è soggetta a sviluppare disturbi di ansia, alcolismo e a riprodurre in casa comportamenti violenti. La lesione finale, colpisce nuovamente le donne, legate a doppio filo a questo mondo di soggetti non riconosciuti in quanto parti di esso. 

Le famiglie che abitano in prossimità di tali ambienti di lavoro sono le prime a percepire l’insalubrità dell’industria, dai miasmi tossici dell’attività di concia alla mole di rifiuti derivati dalle deiezioni degli animali, il loro ambiente di vita è inevitabilmente compromesso e danneggiato, come pure la loro salute. Persino la prospettiva di vita, riporta le biografie nelle stanze dell’intensivo. Se c’è l’azienda di famiglia o il posto in fabbrica, non si studia e se si studia lo si fa per ritornare e collocarsi laddove stava il genitore. 

Violenza sessuale

La violenza dei consumi rimane in forma di educazione. Ai bambini, si offre la carne, si dice loro che fa crescere sani e forti, che il formaggio fortifica le ossa e che il latte contiene tutto il calcio di cui si ha bisogno. Ebbene, oltre alle inesattezze scientifiche che nutrizioniste come Goggi e Pescerello devono costantemente smontare perché si comprenda la realtà scientifica dietro l’alimentazione vegetale, questa procedura educa all’alimentazione violenta, all’accettazione del sopruso e della tortura. 

Quindi, a considerare desiderabile un sistema che genera – con inseminazione coatta – animali allo scopo di consumarli dal primo all’ultimo respiro. La questione della violenza si ripropone nella violenza sessuale. Essa è espressione di un esercizio collettivo di controllo sui corpi delle donne, considerate come oggetti o strumenti da cui estrarre piacere e prole, o da ricondurre all’ordine. Ebbene, per le bestie femmine, il destino è lo stesso. Ingravidate a forza a ritmi non congrui con i tempi del corpo, sono estenuate fino alla morte affinché producano altre bestie a cui riservare lo stesso destino, in caso di esemplari femmina, o da mandare al macello in caso di esemplari maschi, mentre la genitrice viene munta, ingolfata e trattenuta mentre osserva i cuccioli venirle strappati.

L’estensivo è la risposta?

C’è chi parla allora di allevamenti estensivi, illudendosi che siano la risposta. Luoghi con spazi maggiori, rimangono ambienti in cui la bestia esiste come scopo e non come fine, in cui è oggetto e merce e come tale viene atterrata con un colpo in mezzo agli occhi o sgozzata e dissanguata quando è tempo di raccolto. Certo, avrà passeggiato per un quarto di versante della collina per quei sei mesi in cui le è stato consentito stare al mondo, però nascere per essere uccisi non è certo vivere.

Inoltre, l’estensivo era il modello precedente all’applicazione fordista della dimensione intensiva, ed è stato soppiantato proprio perché incapace di sostenere il volume della nuova offerta. In parole povere, se tutte le persone non vegane iniziassero a consumare alimenti provenienti dall’estensivo, che siano essi prodotti caseari o carnei, entro breve questi dovrebbero ingrandirsi ed industrializzarsi, riproponendo le dinamiche inquinanti tanto quanto i numeri dell’intensivo.

Si tratta di una finta soluzione, spesso usata come mezzo per lenire il senso di colpa, umanissimo e legittimo, provato da chi si alimenta di animali. Ed è più finta di quanto si pensi anche all’atto pratico e soprattutto in città, dove la carne proveniente dall’estensivo è virtualmente introvabile salvo rivolgendosi a a quei pochi servizi costosi che la consegnano a domicilio o a poche macellerie altrettanto costose. La maggior parte della carne consumata proviene dai reparti frigo dei supermercati.

Conservare in crisi energetica

La carne, di mammiferi, volatili, pesci e molluschi, i latticini e le uova sono prodotti altamente deperibili, che necessitano di trasporti – alimentati a fossile – imballaggi sterili – di plastica, quindi derivati dal petrolio – e refrigerazione per contrastare il processo di decomposizione.

Uno studio dell’Università di Bristol ha rilevato che circa l’11% del consumo energetico del Regno Unito è prodotto dall’industria di produzione di prodotti alimentati di origine animale e che il 90% di tale consumo è assorbito dalla refrigerazione degli stessi. La maggior parte degli studi, però, parlano di come ottimizzare il settore, integrando la consapevolezza che il dispendio energetico è di per sé altissimo, secondo alcune rilevazioni per i soli espositori di circa 5768-12698 gigawatt orari all’anno.

Da prima dell’estate la preoccupazione per le restrizioni energetiche preoccupa – giustamente – i governi tanto quanto i cittadini, la ricerca di strategie procede, ma senza mai posare l’occhio sui settori che richiedono un alto consumo di energia e che al contempo sono estremamente inquinanti come quello della produzione carnea, casearia e ittica.

“Si, però, ci sono persone che non possono essere vegane”

Giunge poi la questione della globalità. Del mondo che è diverso e complesso, in cui le culture vengono sistematicamente oppresse dal sistema coloniale proprietarista. Ebbene, le culture sono oppresse anche dalla dislocazione della produzione, dalla distruzione ambientale, di cui sono le prime a pagare le conseguenze più atroci, e dalla cancellazione di pratiche di esistenza alternative e tradizionali.

Popolazioni così aggredite dal colonialismo da essere cancellate e usate come gettone per respingere il veganismo, come fossero un argomento di dibattito e non identità. Storie, tradizioni e usi che più spesso di quanto si sa, già ponderavano convivenze alternative con gli animali, finanche il veganismo stesso. Si tratta di un errore logico, che sposta la responsabilità della persona sul fatto che altri, presuntivamente, non siano nella medesima condizione e non possano compiere tale scelta.

Illogico quanto problematico, perché usare altri individui come giustificazione è un processo di strumentalizzazione e oggettificazione delle oppressioni e delle dinamiche lesive che subiscono. Inoltre, alla fine, si finisce con il negare l’impatto stesso che il consumo animale ha sui paesi e i popoli del mondo, non da ultimi i popoli indigeni dell’Amazzonia la cui terra, che rappresenta storia, cultura, sopravvivenza e ambiente, viene costantemente e violentemente espropriata per fare spazio alla macchina dell’intensivo. La responsabilità non viene meno solo perché si crea un’invenzione narrativa che giustifichi lo status quo.

È giusto uccidere gli animali?

Infine, la questione che nessuno vuole portare sul piatto della discussione e attorno a cui si danza, è la questione morale: è giusto uccidere e sfruttare e farlo solo perché si considera un’esistenza di valore inferiore? 

La risposta ce l’hanno offerta secoli di dissertazione che mostrano l’intrinseca connessione dell’antispecismo con le altre lotte. Ed è un forte e saldo no, non è giusto e per tanto non dovremmo farlo.  Soprattutto visto che facendolo continuano ad ingrossare le tasche di quel minimo percentile di super ricchi che sta distruggendo il mondo, con il fossile, l’allevamento e la pesca. 

Questa rimane spesso esclusa, come le uova e i prodotti caseari, dalle considerazioni. Vegetariani sì, ma vegani mai. Eppure la pesca è tanto distruttiva e ingiusta quanto l’uccisione del mammifero, stessa cosa per l’abuso corporeo delle galline ovaiole costrette a seminare uova come grandine fino a quando il loro organismo non cede. E lo stesso si può dire per le vacche da latte la cui vita viene pretesa dalle stesse persone che, però, il vitellino carino non lo mangiano. 

Perché dovremmo esserə tuttə veganə?

E dunque, perché dovremmo esserə tuttə veganə? Per non scadere nelle trappole di sistema, di quel capitalismo patriarcale che coopta il femminismo con le sue promesse di ricchezza ed eccezione. Più ancora perché 70 miliardi di animali vengono sterminati per diventare cibo che non ci serve. Perché vengono considerati merce pur essendo esseri viventi, soggetti negati dallo sfruttamento e dall’abuso di sistema.

Perché non è giusto e se davvero vogliamo costruire un sistema differente non possiamo tenere in piedi le strutture che non intaccano il nostro personalissimo rettangolo di privilegio.  

Nessunə di noi sarà liberə finché non lo saremo tuttə. Compagnə non umanə compresə.

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