Un giorno, quando ero al supermercato, mi ha chiamata una donna che aveva bisogno di informazioni per il suo aborto. Mentre posizionavo tutti i prodotti sul rullo della cassa, ho cominciato a farle delle domande circa il numero di settimane, le procedure, la scelta di aborto farmacologico o chirurgico e così via. All’uscita, la persona che mi accompagnava mi ha fatto notare che “di certe cose” avrei fatto meglio a parlare in altra sede, soprattutto visto l’imbarazzo delle persone che si trovavano in fila e della cassiera.

Ora, questa breve vignetta, mi sembra il giusto punto di partenza per una riflessione più ampia per provare a definire lo stigma che investe l’aborto nel nostro Paese.

Il fatto che l’interruzione volontaria di gravidanza, alias “certe cose”, sia un tema riservato soltanto ad alcuni ambiti di discussione, quindi poco idoneo, per esempio, alle casse di un supermercato, ci fa percepire che l’argomento sia ancora un tabù, e che soprattutto desta ancora molto scandalo, soprattutto all’interno dei contesti della vita quotidiana.

Parliamo di una pratica medica e sanitaria, di un diritto sancito da una legge dello Stato, che tuttavia viene ancora affrontato come se stessimo raccontando di qualcosa di proibito, sotto la rappresentazione sociale di un tema ancora troppo “delicato” per essere normalizzato all’interno della nostra cultura.

Perché l’aborto è ancora così fortemente stigmatizzato nella nostra società?

In psicologia sociale lo stigma riguarda l’attribuzione di qualità negativa a una persona o a un gruppo, rivolto soprattutto alla loro condizione sociale. Possiamo individuare, in particolare, due tipi di stigma: lo stigma esperito, che riguarda la discriminazione sociale che causa emarginazione, colpa e vergogna, e lo stigma percepito, ovvero il processo per cui una persona sperimenta su di sé lo stigma sociale, perdendo l’identità reale o desiderata.

La categoria sociale “donne che scelgono di interrompere una gravidanza”, viene investita di una forte connotazione negativa, legata soprattutto alla rappresentazione classica della donna interpretata dalla società come moglie, prima, e madre, poi.

Alcuni esempi? “Essere madre è la gioia più grande”, “Una donna si realizza solo quando ha un figlio”, “Ognuna ha l’istinto materno”, “Allora quando lo fai un figlio? Meglio che ci pensi ora, prima che sia troppo tardi”, “Non sei madre, non puoi capire”. Avete mai sentito frasi di questo tipo? Io sì, spesso. In molti casi mi sono state rivolte direttamente, in alcuni casi mai, ma le ho sentite tramandate nella mia storia come se fossero sempre esistite.

Di fatto, tutto quello che ci viene trasmesso come “naturale”, in realtà è solo una costruzione sociale ben consolidata nel tempo e nella storia. Una donna che sceglie di abortire, nei fatti, trasgredisce a queste regole sociali, dimostrando, con le proprie scelte, che non solo non esiste nulla di istintivo nella maternità, ma che può scegliere cosa è meglio per la propria vita senza sottostare a convenzioni e prescrizioni.

Quali stigmatizzazioni investono le donne che abortiscono?

In prima battuta è l’aborto in sé a essere stigmatizzato, attraverso rappresentazioni che lo connotano come un’esperienza fortemente negativa, sbagliata, dolorosa, nulla di cui andare fieri, insomma. Successivamente, lo stigma si estende alle donne che affrontano l’aborto, colpevoli di aver fatto sesso senza precauzioni (perché poi, ricordiamo, in questo caso sembra che la donna si ingravidi per autoimpollinazione, senza alcuna responsabilità da parte del partner), condannandosi a una scelta estremamente difficile e dolorosa.

Ecco, questo è forse lo zoccolo più duro della narrazione stigmatizzante sull’aborto, quella per cui anche chi sostiene il diritto di autodeterminazione deve sottolineare sempre che stiamo parlando di un momento estremamente difficile.

Questo processo di stigmatizzazione, sociale e percepita, agisce ovunque, nelle narrazioni mediatiche, nei luoghi della salute, quelli in cui 7 operatori medici e sanitari su 10 praticano l’obiezione di coscienza, nelle reti formali e informali di discussione, negli spazi social e nella retorica anti-choice.

Perché chi sceglie di abortire ha difficoltà a parlarne pubblicamente e condividere la propria esperienza?

Tutto parla di noi, ma nessuno parla con noi; le nostre storie di aborto non sembrano trovare spazio nella rappresentazione pubblica, lo stigma ci impone un silenzio da cui sembra difficile uscire.

Ricorderò sempre una delle prime storie che è arrivata alla pagina di “Ivg, ho abortito e sto benissimo” in cui una donna mi diceva: “Mi sono sempre sentita in colpa per non essermi mai sentita in colpa”. Perché se provi a portare un punto di vista nuovo, diverso da quello della narrazione dominante, vieni accusata di essere leggera, superficiale, di non attribuire nessun valore a quella che è la tua esperienza di aborto.

Questo è un problema; vivere in una società in cui le storie vengono scritte dagli altri, in cui il tuo vissuto non ha dignità e non trova spazio, questo è un problema molto serio, perché crea giudizio, silenzio e marginalizzazione.

E allora forse, l’unica possibilità per provare a riscrivere una nuova storia, è quella di ripercorrere tutte quelle che sono le convinzioni che la società ci ha trasmesso, accantonare le credenze e il giudizio personale, e metterci finalmente all’ascolto di chi ha vissuto quell’esperienza, permettendo a ogni storia di farsi spazio, magari insegnandoci qualcosa.

Perché “certe cose” hanno un nome, ed è bene che le si nomini sempre e ovunque affinché quelle cose comincino a esistere. Dietro un aborto c’è una persona che lo ha vissuto, che magari è una persona che stimiamo, amiamo e rispettiamo, e che probabilmente non smetteremo mai di stimare, amare e rispettare, soltanto perché ha scelto di interrompere una gravidanza.

Le nostre storie di aborto hanno un valore culturale e politico e immenso; ripartiamo dalle nostre vite e dai nostri corpi, e anche dai nostri aborti. La rivoluzione parte soprattutto da lì, dalla fila di un supermercato di provincia.

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