Un inesorabile, logorante conto alla rovescia. Di quelli che ti attanagliano come una morsa, che fanno crescere ora dopo ora un’angoscia snervante, terribile, che ti corrode lentamente nella paura di poterti trovare davanti, di nuovo, il tuo aguzzino, colui che senza alcuna pietà ha cercato di ucciderti e che già ti ha promesso di voler terminare il lavoro.

Così sta vivendo questi giorni Lidia Vivoli, quarantacinquenne siciliana, ex hostess di WindJet: un incubo incessante nella consapevolezza che a breve il suo ex compagno, l’uomo che l’ha quasi ammazzata, sarà scarcerato, e quindi tornerà a essere un uomo libero dopo appena 4 anni e 6 mesi.

Era il 25 giugno 2012, una sera che Lidia non riuscirà mai a dimenticare; lei stessa racconta di un rapporto malato, dell’esistenza di problemi nella loro coppia.

Lui era gelosissimo – dice al Corriere–  ogni appuntamento pensava che celasse un tradimento. In più non lavorava e praticamente ero io a mantenerlo. Quella notte, dopo l’ennesima discussione, andò in bagno e qualche minuto dopo tornò con una padella di ghisa. Cominciò a colpirmi fino a rompermela in testa. Poi afferrò le forbici e mi colpì al ventre e alla coscia. Lottai, cercai di resistere, ma lui mi tenne immobilizzata per tre ore. Mi liberò solo con la promessa che non lo avrei denunciato.

Già, Lidia riesce, miracolosamente, a scampare al suo carnefice, a patto di non denunciare. Cosa che, fortunatamente, Lidia invece fa: il giorno dopo quel massacro i Carabinieri fermano l’uomo, che tutto sommato, con il patteggiamento, se la cava con una condanna abbastanza lieve.

Un femminicidio mancato, dice la stessa Lidia. Solo per un destino benevolo non si è aggiunta all’agghiacciante lista di donne uccise nel nostro Paese per mano di uomini, compagni, mariti, figli, trasformatisi in mostri senza cuore.

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Con lui in carcere Lidia riesce a costruirsi una nuova vita, nonostante perda il lavoro a causa del fallimento di WindJet. Trova un nuovo compagno, mette al mondo due gemelli che adesso hanno un anno; eppure, nella ritrovata felicità si cela sempre un’ombra, pesantissima, soffocante, perché lei sa benissimo che quella condanna leggera non terrà il suo boia a lungo in galera. Ogni suo giorno è scandito da un opprimente countdown, quello che la separa dal momento in cui l’ex sarà rimesso in libertà, con la possibilità di tornare a cercarla, magari per finire il “lavoro”, cosa che, peraltro, le ha già promesso.

Cinque mesi dopo l’arresto ottenne i domiciliari, cominciò a mandarmi messaggi su Facebook. Un giorno me lo ritrovai davanti. Mi disse che voleva tornare con me, che lo stavo rovinando, che me l’avrebbe fatta pagare.

Anche perché la distanza tra loro non è tale da mettere Lidia e la sua famiglia al sicuro: lei è di Bagheria, lui di Terrasini, appena 50 km di distanza. Davvero troppo pochi per sentirsi in salvo.

Visto che le vittime non hanno diritto nemmeno a sapere quando esce il proprio aguzzino – racconta ancora la donna – dobbiamo essere noi a fare i conteggi. Lui è stato condannato a 4 anni e 6 mesi e la sua pena teoricamente finisce a novembre. Considerando però i premi di 45 giorni ogni sei mesi e una probabile penalizzazione per una evasione dai domiciliari, prevedo che torni libero tra maggio e luglio.

Lidia vive così nel terrore di poterlo incontrare nuovamente, di ritrovarsi faccia a faccia con lui; anche perché, spiega, le istituzioni hanno mostrato nei suoi confronti preoccupanti lacune.

Vorrei solo che venisse garantita una vita normale a noi e alle nostre famiglie. Non debbo essere io a scappare dalla Sicilia, piuttosto allontanino lui. E invece non gli mettono neanche un braccialetto elettronico per capire quando sono in pericolo. I carabinieri mi hanno detto: ‘Se lo dovesse vedere ci avvisi tempestivamente’. Ma le pare normale? Ci vorrebbe una legge che equipari la nostra situazione a quella delle vittime di mafia e terrorismo.

Lidia viene spesso invitata a convegni e a incontri nelle scuole, proprio per parlare con i ragazzi, futuri uomini e donne, rispetto al problema gravissimo della violenza, spiegando alle studentesse di non sottovalutare i minimi segnali di un uomo aggressivo e cercando di sensibilizzare i ragazzi al rispetto per la donna. Eppure lei stessa non riesce a vivere serenamente sapendo quello che tra poco accadrà e la sensazione di sentirsi abbandonata dallo Stato in lei è veramente forte.

Più si avvicina quel momento, più cresce l’ansia. Appena mangio qualcosa vado subito a vomitare, la notte mi sveglio in continuazione, ho le palpitazioni al minimo rumore. Sono terrorizzata soprattutto per i miei bambini.

Dopo una violenza per noi e le nostre famiglie tutto diventa difficile, dovremmo sentirci tutelate e invece veniamo abbandonate. Ricevo tanti messaggi di donne che per questo hanno paura a denunciare.

E una considerazione terribile, atroce, induce davvero a riflettere sullo stato in cui questa donna vive, l’angoscia con cui è costretta quotidianamente a convivere, l’odiosa consapevolezza di lanciare appelli che, probabilmente, resteranno inascoltati. Lidia non è diversa da tante, troppe donne che ogni giorno subiscono violenza e da quel momento dividono la vita con il terrore, impaurite da tutto, private della propria serenità. Si sente una sorta di “dead woman walking“, tanto per parafrasare il modo in cui vengono chiamati i condannati a morte negli USA, una donna che parla di se stessa come di una vittima dell’inevitabile, che invece evitabile è. Ed è questo che chiede Lidia. Ed è questo che chiedono tutte le donne: sicurezza.

Se domani lui mi ammazza non cambierà nulla. Nessuno si preoccuperà della mia famiglia, degli orfani. Qualche articolo sui giornali, dichiarazioni di circostanza e poi tutto come prima.

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