De Gregori: "40 anni di Rimmel e Pezzi di... Vetro, musica e parole" - INTERVISTA

Ci saranno Ligabue, Fedez, Elisa, Giuliano Sangiorgi, Malika Ayane e molti altri a festeggiare con lui i 40 anni di Rimmel in uno storico evento all'Arena di Verona. Nel frattempo, Francesco De Gregori racconta a Roba da Donne come sono nate alcune delle sue canzoni più belle, incontri importanti e i prossimi progetti.

Erano gli anni in cui al bar della RCA ci trovavi Venditti, ti bevevi qualcosa con Baglioni, sbattevi contro Renato Zero nei corridoi, ti facevi un giro di chitarra con Rino Gaetano, gli rubavi una sigaretta e… ogni tanto, più di rado, c’era pure la possibilità di incrociare i ricci di Battisti. Era il 1975, l’anno in cui uscì “Rimmel” di Francesco De Gregori, con le sue Pezzi di Vetro, Il Signor Hood, Pablo, Buonanotte Fiorellino, Le storie di ieri, Quattro cani, Piccola mela e Piano Bar.
Sì, perché alla RCA, una sorta di casermone sul raccordo anulare, ci trovavi anche lui che, grazie a Vincenzo Micocci, aveva già pubblicato Theorius Campus (1972) con Signora Aquilone – la prima canzone che, per sua stessa ammissione, appartenesse davvero a lui e non fosse un attingere a piene mani da De André -, Alice non lo sa (1973) e Francesco De Gregori (1974) con, tra le altre, Niente da Capire. Ma non era ancora Francesco De Gregori. Non in quel senso lì.

Fu “colpa” di Rimmel, scritta per metà in una stanza di albergo, per metà dietro le quinte di un programma del Mago Zurlì, prima di un’ospitata.
Da lì in poi i concerti cominciarono a non essere più per poche centinaia di persone e neppure come le serate live al Folkstudio degli esordi.
Roba da riempirci l’Arena di Verona, 40 anni dopo, per le celebrazioni di Rimmel 2015, il concerto-evento del 22 settembre 2015, in cui Francesco De Gregori suonerà per la prima volta integralmente il suo album più amato, ma non solo (Prevendite su TicketOne.it e nei punti vendita TicketOne e Unicredit).

Nel frattempo si conclude il Vivavoce Tour (il 7 settembre a Viggiano, Potenza) e si avvicina l’uscita, a fine ottobre, di “De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto”, l’album in cui il cantautore traduce e canta Dylan. E allora ha senso parlare ancora di, ma soprattutto con Francesco De Gregori, anche se è già stato scritto, detto, domandato tutto; anche  se parlare (o scrivere) di De Gregori è un po’ come leggere i testi di una sua canzone senza ascoltarne la musica. Possono essere bellissimi, ma si rompe una magia. Qualsiasi parola, da sola, non sarà mai all’altezza. E allora è meglio affidarsi alle sue, direttamente.

Partiamo dagli ospiti di Rimmel 2015 all’Arena di Verona: Ligabue, Fedez, Caparezza, Malika Ayane, Elisa, Checco Zalone, Fausto Leali, Giuliano Sangiorgi, Ambrogio Sparagna e L’Orage. Alcuni erano attesi, se non prevedibili, come Sparagna o Ligabue dopo il duetto in “Alice” dell’ultimo album “Vivavoce”. Ma altri sono a tutti gli effetti la sorpresa che non ti aspetti. I puristi hanno storto il naso, i malfidenti hanno già avanzato l’ipotesi di una scelta un po’ ruffiana per conquistare un pubblico più ampio, giovanissimi compresi e… quelli che non hanno la necessità o la pretesa di avere una versione dei fatti sono curiosi di sapere il perché di alcune scelte e, soprattutto, vedere e… ascoltare.

Sono artisti che mi piacciono. Semplicemente. Alcuni sono molto distanti da me, dal mio modo di fare musica? Vero, ma mi piacciono e li stimo. Prendiamo Caparezza e Fedez, quelli che probabilmente lasciano più perplessi: sono due artisti che reputo ispirati e apprezzo anche perché non sono rinchiusi nello stereotipo di un genere, il rap, ma lo usano per esprimersi. Leali, l’ho sempre amato molto: era un invito per me naturale. Gli altri, mi sembra che non dovrebbero destare stupore… Ah, Checco Zalone! Lui l’ho chiamato perché è uno che suona bene, ha fatto un’adolescenza al piano bar e, infatti, gli ho affidato, tra le altre cose, la canzone Piano Bar. E poi sono un appassionato di cinema e amo molto i suoi. Trovo che il suo modo di fare cinema, che tutti riducono a svago ed evasione, sia sì molto divertente ma racchiuda anche una visione del mondo e della realtà per cui sceglierei l’aggettivo… raffinata.

40 anni di Rimmel e, va da sé, 40 anni di carriera (e più, perché c’è anche il prima), in cui lei non è mai riuscito a cantare le sue canzoni, neppure gli evergreen al modo dell’originale. È la solita storia: alcuni fan non glielo perdonano, altri la amano per questo suo essere sempre nuovo. C’è da credere che Rimmel 2015 non farà eccezione.

In realtà, alcune canzoni ho cercato di toccarle pochissimo, altre ammetto le vivo in modo diverso e, probabilmente, saranno altra cosa rispetto all’originale. Ci stiamo ancora lavorando. Altre ancora le ho affidate ai miei colleghi e, in quel caso, ovvio, c’è da aspettarsi arrangiamenti e interpretazioni diversi. Del resto io non posso invitare due artiste di grande sensibilità come Elisa o Malika e dire loro di fare “Buonanotte Fiorellino” o un’altra canzone come l’ho fatta o la faccio io.

E poi diciamocelo. Sono passati 40 anni. Io sono un uomo diverso, la tecnologia, i musicisti, gli strumenti a disposizione sono diversi. Non si può mettere la musica in un museo, farla diventare un totem. La musica è viva. Persino quella classica, che ha una rigida partitura, cambia radicalmente se a dirigere un Beethoven è Toscanini o Von Karajan. Figuriamoci la mia. Per ascoltare Rimmel di quarant’anni fa, basta mettere il disco.

Vede, non è questione di rispettare l’originale. È questione di rispettare la musica, il suo nerbo. Se cercassi di fare “Rimmel” oggi come la facevo 40 anni fa, non la rispetterei.

Lo ascolti parlare e pensi che del “Principe” ha l’eleganza e la cortesia, non l’austerità un po’ sprezzante che alcuni gli hanno a volte attribuito. A meno che, per quest’ultima, non si intenda una forte personalità, intenzionata a difendere la sua sfera privata, le sue idee e a esporre le proprie opinioni in modo non sovrastante ma chiaro, senza la necessità di risultare a tutti i costi popolare. Ma allora è un’altra cosa.

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Francesco De Gregori – Foto di Daniele Barraco

Restiamo sul tema. Nel 2014 ha pubblicato Vivavoce, che lei stesso ha definito come “l’album di cover di me stesso”: 28 canzoni che ripercorrono, senza un filo logico apparente, la sua carriera. In realtà, anche in questo caso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di molto nuovo. “Generale”, “Per le strade di Roma”, “Celestino”, sono brani nuovi. Lo è “Alice”, cantata con Ligabue, e pure “La donna cannone”, spogliata da ogni retorica nostalgica da Nicola Piovani. “Il ’56” ha guadagnato un ritmo incalzante dove, lo ammetta, si sente che vi siete proprio divertiti. L’impressione è che molte persone ascoltino le sue canzoni con reverenza e grande nostalgia. Reverenza e nostalgia che, invece, non sembrano affliggerla.

Vero. Non provo nostalgia. Non guardo con nostalgia neppure me stesso. Certo, a 64 anni ci sono cose che uno rimpiange di quando era più giovane. Cose banali: l’energia, la fisicità, ma anche quelle fino a un certo punto. Le ho sostituite con altro.

Prendiamo “Rimmel”, è una canzone per cui non ho nostalgia. Mi piace ancora, la sento ancora attuale e ho ancora voglia di suonarla e di sperimentare con lei.

Certo, capisco che molte persone siano legate agli originali: ricordano loro qualcosa. Non c’è nulla di male. Per questo ci sono i dischi. Dal canto mio non sono in grado di suonare due volte la stessa cosa, per i motivi che ci siamo detti sopra e perché fare musica continua a piacermi e divertirmi molto.

Nelle sue interviste e nelle recensioni di Vivavoce sorprende vedere che l’ultima traccia, “Fiorellino # 12&35” è quasi passata sotto silenzio o, comunque, non ha fatto troppo clamore. Eppure in questa versione “dylaniana” di “Buonanotte Fiorello”, lei ha proprio stravolto tutto e, stavolta, non parliamo solo di arrangiamenti, ma anche di parole. Un verso è saltato e subito dopo “l’anello resterà sulla sabbia”, ci si trova un “se per caso qualcuno lo trova, lo può pure lasciare dov’è”. Capirà che, lasciando stare chi è inorridito, gli altri si sono quanto meno divertiti, e tanto, nel sentire questa sorta di dissacrazione di una delle canzoni d’amore per eccellenza della musica italiana, Ha detto di averlo fatto per ragioni metriche. Nulla di più?

Ho preso di peso l’arrangiamento del brano di Dylan, insieme al titolo e, con la chitarra, in camera mia, ho provato a vedere se funzionava e, sì, funzionava, tranne che per due versi… e li ho cambiati.

Però, lo ammetto, forse c’è dell’altro: al di là del non amare le canzoni imbalsamate, sono passati 40 anni e, diciamocelo – ride De Gregori –, se uno ritrova un anello, un amore o qualcos’altro che allora erano molto preziosi, può anche darsi che decida di lasciare quelle cose lì, al tempo cui appartenevano, perché il suo presente lo è altrettanto. Anzi, di più, proprio perché presente. O no?

Parlando di Dylan, a fine ottobre uscirà il disco “De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto”: traduzione e interpretazione di 11 brani dell’artista americano che, forse, De Gregori ha amato più di tutti. Di sicuro quello con cui, più di tutti, i parallelismi si sono sprecati.

L’incontro tra De Gregori e Bob Dylan avvenne a Roma, proprio nel 1975, l’anno di Rimmel: fu l’amico e impresario David Zard a trascinarlo nel suo camerino per presentarglielo conoscendo la sua grande ammirazione per l’artista.
Anni dopo Dylan inserì la sua versione italiana di If You See Her Say Hello, tradotta da De Gregori nel brano “Non dirle che non è così”, in un cd che raccoglieva la colonna sonora del film in cui lui recitava.

Lo stesso Dylan chiamò “Love and Theft”, amore e furto appunto, un suo album denso di citazioni. Oggi De Gregori riprende quello stesso titolo per dare vita a quella che, lo stesso cantautore, ha definito “Una grande avventura”, e a un disco dal nome evocativo e già molto atteso.

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Francesco De Gregori – Dettaglio di una foto di Daniele Barraco

L’hanno sempre dipinta come un individualista. In realtà nei suoi ultimi lavori emerge tanto la band, sarà anche che sono stati anni di live. Ma lei, Guido Guglielminetti, Giovenchi, Bardi, Arianti, Parenti e gli altri, sul palco sembrate uno squadrone di calcio molto affiatato e vincente.

In passato sicuramente ero più individualista e, in parte, lo sono ancora. Fa parte dell’essere un cantautore probabilmente. Hai bisogno anche di solitudine e individualità. Diciamo che non ci vedo conflitto. Se mi si passa un confronto forse azzardato penso di essere un po’ come Mick Jagger per i Rolling Stone: lui è il cantate, lui è quello che scrive le canzoni, ma lui non fa ombra alla banda e la banda non fa ombra a lui. Quello che posso dire della mia band di oggi è che funziona, perché ci diverte fare musica e fare musica sempre diversa. Non sappiamo suonare la stessa cosa due volte in modo uguale.

Quando descrive gli anni in RCA, descrive anni in cui fare il musicista voleva dire immergersi in un clima che, raccontandolo oggi, sembra quasi idilliaco, fatto di condivisione di suoni, spazi, ristoranti, case. Oggi cosa significa fare musica?

Per dirlo dovrei trovarmi a vivere la situazione di un novizio cantautore. Ora posso parlare dalla situazione privilegiata di chi, se vuole qualcosa, sa dove andare a prenderselo e a chi chiedere. Di sicuro quel clima non c’è più, ma è stato sostituito da un altro sistema di relazioni tra musicisti. Parlo principalmente della Rete, che offre una nuova modalità di scambio e confronto a livello planetario. Allora era più difficile. Forse è un modo meno umano, ma ha i suoi svantaggi e i suoi vantaggi.

Lei è tecnologico?
Quanto basta. Nel tempo libero preferisco un libro, il cinema, il teatro, il calcio. Ma la tecnologia può essere un mezzo utilissimo. Anche la chitarra di per sé è un mezzo. Il valore di un mezzo sta nel fatto che sia usata con un fine.

Si è detto tutto sulle sue collaborazioni e sui suoi incontri importanti: De André, Dalla, Fossati, Venditti. Si è parlato molto poco delle donne di De Gregori, quelle che ha incrociato nella sua carriera, hanno influenzato la sua musica o ne hanno creata con lei.

Un incontro che ricordo con grande piacere è quello con Monica Vitti. Lei venne in RCA perché voleva incidere un disco. Voleva cantare “Buonanotte Fiorellino” che per me, diciamocelo, in quegli anni sarebbe stata una botta di vita. Ma io le dissi, anche un po’ spocchioso, che non era adatta e le consigliai di cantare “Avanti Bionda” di Paolo Conte, che trovavo perfetta per lei. 
Finì che non se ne fece nulla, neppure il disco che io sappia.

Per quanto riguarda la musica un punto di riferimento fu Caterina Bueno, la incontrai al Folkstudio negli anni Sessanta, stava cercando un chitarrista e io mi proposi con un po’ di incoscienza. La seguì per parecchio tempo e da lei imparai molto, delle canzoni popolari e in termini di rigorosità.

Poi c’è Giovanna Marini – riprende De Gregori –, un pilastro: musicologa, critica, musicista colta e donna di spettacolo. Una donna di grande acume. 

Come si vide chiaramente ne “L’abbigliamento di un fuochista” prima e in quella “scommessa musicale, oltre che un riconoscimento del valore stoico e della bellezza delle canzoni (popolari) che ci stanno dentro” che è “Il Fischio del Vapore” (2002), per dirla con la Viglietti in “Guarda che non sono io”, il libro.

Per la cronaca, tornando invece a Caterina Bueno, De Gregori le dedicò “Caterina”, inclusa in “Titanic” (1982), che gli costò il rimprovero della stessa per un verso in cui il cantautore scriveva di volerla consolare: “Non ho nessun bisogno di essere consolata io!”.

Mi piacciono molto le voci femminili – aggiunge De Gregori –, poi è inutile nascondersi: la musica cantautorale in particolare è sempre stata un po’ ingiusta verso le donne.

Terminato il Vivavoce Tour (il 7 settembre), dopo Rimmel 2015 e l’uscita di “Amore e Furto” che succede?
Succede che ci saranno una decina di date live per promuovere l’album nuovo e poi, inevitabilmente, mi metterò a pensare a un disco nuovo.

Perché inevitabilmente?

Per non interrompere questo cerchio di musica che mi sta intorno, da qualche anno a questa parte in particolare. Dopo un po’ che sto senza musica e musicisti mi sembra di non fare nulla di serio. E poi scrivere e suonare per me è un fatto di condivisione, un fatto collettivo, uno lo fa per farsi ascoltare. Quando scrivo una canzone è per comunicare qualcosa, non è per sfogarmi con me stesso.

Francesco De Gregori
Francesco De Gregori – Dettaglio della foto di Daniele Barraco

Si parla da oltre un’ora. È ora di chiudere. De Gregori è gentile, come all’inizio, ha la voce profonda, a tratti divertita. Quando qualcosa non lo gradisce o lo mette in guardia si capisce. Vale anche in positivo. È bella una tale chiarezza. Mette a proprio agio e, chi scrive, all’inizio non lo era. Non per colpa sua, chiaro. Ma va da sé che quando hai passato anni, dalla tua adolescenza in poi a De Gregori, De André, Fossati e Conte e ti trovi a parlarci insieme, il piacere si mischia a quel senso di infantile inadeguatezza, per cui ti sembra che tutto sia troppo banale, non all’altezza.

Si chiama ammirazione, pazienza, nulla di brutto, anzi. L’importante è non cadere nell’idolatria che, come bonfonchiò Dylan quando incontrò De Gregori, quella sì che è una brutta cosa. Così è vero, potresti provare a dirglielo, a raccontargli che al figlio che stai aspettando fai ascoltare ogni sera “Santa Lucia”, perché hai deciso che quella, insieme al “Suonatore Jones” di De André, sarà la sua ninna nanna. Ma le parole banalizzano un’emozione e le emozioni non vanno maltrattate.

Non resta che concludere, con le domande che, stavolta, non la sottoscritta, ma la community di Roba da Donna ha chiesto di sottoporre all’artista.

In molti la paragonano a un poeta e equiparano le sue canzoni a poesie. Lei si è già espresso più volte in merito. Proviamo a fare un riassunto.

Non so dare una definizione assoluta alla poesia, se non in senso tecnico: banalizzando, un componimento scritto con o senza rima. Manzoni dei Promessi Sposi fa la prosa, Pascoli fa poesia, per intenderci. Poi c’è la poeticità, che è una categoria a sé e riguarda vari tipi di creazioni: un film, un quadro, forse anche una canzone. Ecco, io credo che la gente confonda poesia e poeticità: anche in un film della Disney o nei baci Perugina può esserci poeticità.
Definire le mie canzoni poesia denota una mancanza di conoscenza della poesia. Poeti contemporanei sono Ferlinghetti, Caproni, Raboni… La poesia la puoi leggere, declamare, le mie canzoni non starebbero in piedi senza la musica.

Posto il beneficio del dubbio sul fatto che le canzoni debbano essere spiegate, in molti sono curiosi rispetto al significato di “Alice”, che lei ha detto più volte essere ispirata ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Carroll. In particolare chiedono lumi su “Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole”.
Era un periodo in cui ero affascinato da tutto ciò che riguardava le associazioni e la scrittura automatiche, ero figlio di una cultura dadaista e freudiana. Non so bene cosa sia successo, probabilmente pensando ad Alice è stato automatico evocare lo Stregatto; il gatto poi è notoriamente animale sacro agli egizi che adoravano il sole. Da lì il gioco di specchi dei versi. Questo, ovviamente, se devo provare a dare una spiegazione; ma, come dice lei, è proprio necessario?

Lei è, al tempo stesso, uno dei “cantautori della vecchia scuola”, perdoni se non trovo un altro modo per definirla, e un cantautore contemporaneo. Ha attraversato almeno tre generazioni, che saranno riunite sotto il palco di Rimmel 2015, nonostante differenza anagrafiche, sociali e culturali abbastanza evidenti. Sente mai la responsabilità di questo suo ruolo di “cantautore di tre generazioni”?

No, non sento nessuna responsabilità. Mi fa piacere, sono grato della cosa, mi diverte e, a tratti, mi sorprende, ma non ne sento la responsabilità.

Nella mia vita privata tendo a essere molto responsabile, ma nel mio essere artista solo totalmente irresponsabile e voglio continuare a esserlo.

 

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