"Sono quasi morta di ecstasy. Ora vivo perché non succeda ad altri" - INTERVISTA

Giorgia Benusiglio aveva 17 anni quando ha rischiato la morte per mezza pasticca di ecstasy. Sottoposta a un trapianto, oggi vive grazie al fegato di Alessandra, 19 anni, e dedica la sua vita a fare in modo che non accada ad altri.

Ha sbagliato. Ha sbagliato una volta da ragazzina e non si vergogna ad ammetterlo. Questo non significa che si assolva: vuol solo dire che quell’adolescente che ha commesso una sciocchezza che per un soffio non le è costata la vita, ora è una donna. Una donna seria e impegnatissima, tanto che non è semplice riuscire a “prenotare” una mezz’ora al telefono con lei. Ma quella mezz’ora ce l’ha dedicata, con tutta l’intensità e la passione che mette ogni giorno nel suo lavoro, nonostante debba scappare di corsa a un incontro (naturalmente di lavoro).

Giorgia Benusiglio nasce a Milano, dove tuttora vive, il 27 luglio 1982. Famiglia normale, genitori più che presenti ma non oppressivi, valori saldi, studentessa modello. Nel 1999, come molte ragazze della sua età, trascorre i sabati in discoteca. Gliel’aveva promesso, il suo papà Mario scomparso un anno e mezzo fa, quando Giorgia stava per entrare in prima al liceo linguistico: “Se otterrai buoni voti ti lascerò uscire il sabato sera”. E lei è bravissima, come dirle di no?

Sono gli anni della movida frenetica sulla riviera gardesana, delle discoteche che da tutto il Nord Italia attirano giovani sul Benaco: è di tendenza, è figo. E anche Giorgia Benusiglio e i suoi amici, per ballare, il sabato sera si spostano da Milano alla zona di Desenzano del Garda. Ma in realtà, la storia di Giorgia inizia un po’ prima. Inizia con un volantino distribuito fuori dal suo liceo e rilasciato dal Ministero della Salute.

Giorgia, la tua storia, che da anni racconti in scuole, carceri e comunità e dalla quale hai tratto anche il libro Vuoi Trasgredire? Non farti! (Giorgia Benusiglio, Renzo Agasso, ed. San Paolo) inizia nel mese di ottobre del 1999, quando tu avevi 17 anni ed eri una liceale. Una volta, fuori da scuola, hai trovato un volantino. Di cosa si trattava?
Era una brochure del Ministero della Salute sulle droghe, improntata sulla politica di riduzione del rischio e del danno. Spiegava come assumere droghe, tra cui l’ecstasy, in modo “sicuro”, con consigli come “non prendere mai una pastiglia intera in un colpo, ma dilazionare la prima e la seconda metà”, “bere molta acqua” e così via. Io ho pensato che se era un documento del Ministero allora ci si poteva fidare. Così, con un gruppo di amici, abbiamo deciso di andare in discoteca con l’intento deliberato di prendere ecstasy.

Copertina del libro "Vuoi trasgredire? Non farti!"
Copertina del libro “Vuoi trasgredire? Non farti!” – Fonte: Giorgia Benusiglio

Ma la cosa non è andata come avevate programmato e tu, a causa dell’ecstasy, sei stata molto male, a un passo dal non farcela. Ti è toccata una diagnosi di epatite tossica fulminante dalla quale ti hanno ripreso per i capelli grazie a un trapianto di fegato in extremis. Era la prima volta che assumevi droga?
No, era la terza. Le altre due era andato tutto bene, se così si può dire. Avevo seguito tutte le indicazioni di quel volantino, e tutto era filato liscio. Fino alla terza volta. Addirittura ero stata più prudente delle due volte precedenti: avevo preso un quarto di pasticca prima, e un altro quarto tempo dopo. Mezza pasticca in totale.

Mezza pasticca sufficiente per essere letale…
Sì, anche se in realtà non me ne sono accorta subito. Il giorno successivo ho iniziato ad avvertire un leggero mal di pancia e, nei giorni successivi, ho avuto lievi malesseri ai quali non ho quasi fatto caso, tanto che comunque andavo a scuola regolarmente: qualche linea di febbre, un po’ di nausea, inappetenza… Meno di un’influenza, insomma. Fino al sesto giorno, quando mi sono svegliata con l’occhio giallo: ittero. I miei genitori non erano a casa, mio papà lavorava per un tour operator e in quel periodo si trovava in Egitto per un viaggio premio; mia mamma l’aveva seguito. Io ero a casa con mia sorella, maggiorenne, e con la signora che ci aiutava nelle pulizie.

Giorgia Benusiglio
Giorgia Benusiglio – Fonte: Giorgia Benusiglio

Sono state quindi loro ad accorgersi che il tuo malessere era qualcosa di più di una nausea passeggera? Ti hanno portato loro in ospedale?
In realtà è stata la mamma del mio ragazzo. Io sarei dovuta stare da lui, col benestare dei miei, ma avevamo litigato, quindi ero tornata a casa con mia sorella. Quando ho capito che la situazione era più grave di quanto pensassi ho chiamato la madre del mio ragazzo, che dopo aver valutato la situazione ed essersi anche confrontata con altri mi ha accompagnata in ospedale.

In ospedale la diagnosi è di quelle che fanno davvero paura. Epatite. Tossica. Fulminante. Giorgia peggiora a vista d’occhio, le sue condizioni sono gravissime. Entra in coma: l’unica salvezza è il trapianto di fegato. Giorgia entra in sala operatoria per un intervento di 17 ore. Pochi giorni dopo un altro, perché il fegato trapiantato risulta leggermente più grande rispetto al suo. Altra operazione, altre 5 ore in sala con i chirurghi.

Giorgia, tu vivi grazie al fegato di Alessandra, una 19enne morta in un incidente stradale. Hai detto spesso, durante gli incontri, che sei ancora arrabbiata con te stessa, e che vivere con l’organo di un’altra persona è un’esperienza particolare e difficile…
Il senso di colpa nei confronti di Alessandra non se ne andrà. Non credo che farò mai pace con me stessa. Certo, è un percorso che sto facendo, e molta strada l’ho già fatta, ma non so se ci arriverò mai. Cerco di capire, ma sono molto dura con me stessa. Io sono nata sana, e per quattro ore di sballo sono arrivata a tanto, a essere una paziente per sempre… I genitori di Alessandra mi hanno conosciuta e sono al corrente dell’accaduto, sanno quanto impegno io metta in quello che faccio. Sono sempre dalla mia parte, mi appoggiano, e sono a conoscenza di quanta, immensa gratitudine io provi ogni giorno verso la loro ragazza.

Giorgia Benusiglio
Giorgia Benusiglio – Fonte: Giorgia Benusiglio

Nessuno degli amici che era con te ha avuto malesseri di qualche genere? E, dopo la tua esperienza, loro hanno continuato ad assumere droga o hanno smesso?
Sono stata l’unica a stare male. E il motivo mi è stato poi spiegato dai medici: le pasticche di ecstasy sembrano pillole perfette confezionate da case farmaceutiche. Nient’affatto. Sono pastiglie preparate in scantinati dell’Est Europa da persone che si improvvisano chimici ma chimici non sono. Il “principio attivo” non viene quindi distribuito uniformemente nell’intera pasticca, ma finisce un po’ dove capita, mescolato alle sostanze da taglio, per esempio il veleno per topi. A me è capitata la mezza pastiglia “infame”: in quel periodo circolava una partita di ecstasy tossica arrivata dall’Olanda, in pochi giorni sono morte o state male altre persone.
Alcuni dei miei amici hanno smesso con la droga. Ma altri hanno continuato: all’inizio mi sono arrabbiata molto, l’ho vissuta come una questione personale. Ma poi ho lasciato andare, ho capito che questo non ha nulla a che fare con me.

Dalla tua esperienza hai tratto molti insegnamenti, che trasmetti quotidianamente a giovani, adulti ed educatori in quello che ormai è diventato il tuo lavoro. Dopo quanto tempo dal trapianto hai iniziato a muoverti per fare informazione e sensibilizzazione?
In realtà ha iniziato mio padre, quasi subito. Andava in tv, arrabbiatissimo, e alla fine è riuscito a far ritirare quegli opuscoli dannosi e basati su un presupposto completamente sbagliato. Poi è andato nelle scuole, e ogni volta mi chiedeva se volessi accompagnarlo. Nei primi mesi non potevo perché stavo male fisicamente, poi è subentrato il malessere psicologico. L’ho raggiunto per la prima volta poco più di 10 anni fa, non ricordo la data esatta. E piano piano ho proseguito. Era volontariato, ma le richieste hanno iniziato a crescere, e aumentavano continuamente. Così a un certo punto mio padre mi ha posto dinanzi a un bivio:

O questa attività rimane volontariato, e quindi puoi prendere due o tre impegni al mese, oppure puoi pensare di farlo diventare il tuo lavoro. Ma se è questo che vuoi devi studiare, specializzarti, aggiornarti.

E così ho fatto. Mi sono laureata in Scienze della Formazione, specializzandomi in psicologia della famiglia con una tesi sui comportamenti devianti e a rischio nell’adolescenza, e mi aggiorno continuamente. Ora tengo incontri anche con genitori ed educatori: cerco di spiegare loro come comunicare con un adolescente in modo sano ed equilibrato. 

Mario Benusiglio
Mario Benusiglio, il papà di Giorgia – Fonte: Web

Tu preferisci puntare sulla prevenzione, iniziando dai ragazzini delle scuole medie…
In generale sì, anche perché l’età media dei ragazzi che assumono droghe si è abbassata: ci sono ragazzini che già a 11-12 anni hanno provato o usano regolarmente stupefacenti. Poi vado tranquillamente anche in scuole superiori o in università, ma naturalmente è diverso: parli con giovani che con le sostanze, giocoforza, sono già entrati in contatto, almeno la maggior parte di loro. 

Quali sono le reazioni e le domande più frequenti dei ragazzi?
Dipende molto dall’età. Naturalmente a seconda della fascia anagrafica cambiano le esigenze informative. In genere i più piccoli sono molto curiosi sulla mia storia, cercano riferimenti che riescano a riflettere su loro stessi: mi chiedono per esempio cos’abbia vissuto io in ospedale, anche se non potranno mai immaginarlo, o come abbiano reagito genitori e amici. Elementi, insomma, vicini a loro. Quando racconto che stavo per morire e ho ricevuto due estreme unzioni non hanno particolari reazioni. Ma regolarmente restano scioccati dalla mia cicatrice: la possono vedere, è reale e in questo modo riescono a empatizzare. Accade anche che il giorno stesso o quello successivo all’incontro mi scrivano. Con gli adolescenti delle superiori succede più spesso che mi dicano liberamente cosa pensano, per esempio che è impossibile morire, o rischiare di farlo, per mezza pastiglia, e instaurano confronti su droghe leggere, legalizzazione, con le loro convinzioni talvolta ingenue e costruite a partire da fonti sbagliate. 

In questi anni a contatto con i giovani avrai vissuto molte esperienze intense. Ce n’è qualcuna che ci vuoi raccontare?
Ce ne sarebbero tantissime. Una volta, per esempio, una ragazza mi ha fatto avere un biglietto anonimo in cui spiegava di essere stata stuprata con il Ghb (la cosiddetta “droga dello stupro”, ndr) e ho dovuto ricostruire un intreccio molto fitto per capire chi fosse e riuscire a parlare con lei: i genitori ancora mi ringraziano. Un’altra volta, dopo un mio intervento in una scuola media del Nord Italia, una ragazzina riferì alla preside che 13 compagni sniffavano antidolorifici in classe. Vennero attuate tutte le verifiche del caso per escludere che si trattasse di cocaina. In effetti erano farmaci, ma tre di loro avevano già problemi conclamati al fegato. 

Arrivo al caso della morte del 16enne Lamberto Lucaccioni dopo una serata al Cocoricò. In seguito alla chiusura del locale, hai partecipato all’incontro tenuto dentro la discoteca “Accendiamo la musica, spegniamo la droga” (il video integrale della serata è disponibile su YouTube). Cosa pensi di queste vicende?
Anzitutto, non posso non ricordare che Lamberto è morto, lo spacciatore è a piede libero e la discoteca è chiusa. Non ha senso chiudere il locale, che sia quello o un altro, è una forma di deresponsabilizzazione da parte degli enti, dei genitori, delle forze dell’ordine… Quelle pastiglie erano dentro la discoteca, ok. Ma se ci sono arrivate vuol dire che qualcuno, prima che arrivassero lì, ha sbagliato. O ci assumiamo tutti la responsabilità o decidiamo che non è stato nessuno, però a quel punto agiamo.

Giorgia Benusiglio al Cocoricò per "Accendiamo la musica, spegniamo la droga"
Giorgia Benusiglio durante la serata al Cocoricò – Fonte: Web

Sei mai incappata in pregiudizi, critiche, insulti per quello che ti è capitato?
Nell’immediato no. Il problema si è palesato quando sono diventata una testimonial: quando sei un personaggio mediatico te ne devi assumere tutte le responsabilità, e sapere che incontrerai persone che ti giudicheranno a prescindere. Sul web, per esempio, ci sono commenti o forum in cui mi massacrano. Eppure io mi chiedo… Non è sufficiente che abbia fatto volontariato, che io abbia studiato, che continui a fare interventi gratuiti come nelle carceri perché credo in quello che faccio? Mi accusano di lucrare sulla mia vicenda. E pensare che, quando ho scritto il libro, fra tutte le case editrici disposte a pubblicarlo ho scelto la San Paolo perché era l’unica che non avrebbe modificato la storia. Gli altri volevano romanzarla. Certo, avrei guadagnato più soldi, ma io volevo solo far arrivare il mio messaggio.

Ti sei mai vergognata di quello che hai fatto?
No, nemmeno per un momento. E nemmeno ho mai voluto compassione: a tutti i costi volevo tornare la ragazza normale che ero, suscitare meno pena possibile. Tanto che quando frequentavo l’università ho cercato di espormi mediaticamente il meno possibile per evitare che i docenti mi riconoscessero e mi premiassero per meriti che non avevo, o viceversa. In quegli anni inoltre avevo un’amica, eravamo spesso insieme e studiavamo moltissimo, con la media del 30. Sua madre, quando è venuta a conoscenza della mia storia, le ha vietato di frequentarmi.
Ci sono stata male, ovviamente. Ma per le critiche buttate lì, i commenti pungenti su internet o i pregiudizi non me la prendo più. Penso che se queste persone hanno così tanto tempo da buttare, probabilmente dalla loro vita non hanno ottenuto poi così tanto. Ciò nonostante, è un atteggiamento che mi preoccupa: a forza di giudizi e sentenze, ci saranno sempre meno persone disposte a esporsi e a raccontarsi.

E in effetti ci vorrebbero tante, tantissime Giorgia che si assumano la responsabilità dei loro sbagli, li riparino e ne facciano una missione a servizio degli altri. E ci vorrebbero ancora tanti Mario Benusiglio che, a quattro giorni dal trapianto della figlia, in ore di angoscia e terrore, scrivano lettere come questa ai giornali.

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