Reyhaneh Jabbari è vittima, doppiamente vittima, di un sistema maschilista e ingiusto.

Il mondo da anni cercava di sensibilizzare l’opinione pubblica sul caso di Reyhaneh, per tentare, fino all’ultimo, di salvarla dall’impiccagione.

Purtroppo però Reyhaneh non ce l’ha fatta ed è stata giustiziata nella prigione di Gohardasht, a nord di Karaj.

La notizia ha fatto il giro del mondo, ma senza avere il giusto rilievo mediatico.

Perchè purtroppo è così. Ci si interessa più dell’ultimo amore delle soubrette che di casi come questo, che dovrebbero portare a riflessioni profonde.

Reyhaneh è stata giustiziata, davanti alla sua famiglia e a un centinaio di persone, per aver ucciso a coltellate il suo stupratore, Morteza Abdolali Sarbandi, un ex impiegato del ministero dell’Intelligence.

La ragazza confessò immediatamente l’omicidio, spiegando quali seri motivi l’avevano spinta ad un gesto così estremo e violento.

Non le fu però accordato nessun avvocato e nel 2009 venne condannata a morte.

“Nega tutto e non ti facciamo impiccare”, aveva ribadito il figlio di Morteza Abdolali Sarbandi nei primi giorni di ottobre.

Reyhaneh però aveva rifiutato di testimoniare il falso, salvando l’apparenza di chi aveva abusato di lei.

Nei giorni scorsi Taher Djafarizad di Neda Day, associazione che ha seguito da vicino la lotta dei familiari di Jabbari, ha espresso un giudizio critico nei confronti del governo di Rohani, l’uomo che nel 2013, con un sospiro di sollievo da parte delle potenze occidentali, venne eletto come successore di Mahmud Ahmadinejad:

“da quando è al potere le esecuzioni sono aumentate. Non è un moderato, è sempre stato dentro l’apparato del regime e ha avuto un ruolo in tutte le pagine più nere della Repubblica Islamica. L’Occidente ripone in lui una fiducia ingiustificata”.

Vittima, doppiamente vittima.

Non smetteremo mai di ripeterlo.

È questa la giustizia?!

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