Con una votazione che ha raccolto il 65,4% di voti favorevoli, il Canton Ticino in Svizzera decreta il divieto per le donne di indossare il burqa nei luoghi pubblici di tutto il territorio. Il decreto esiste già in Francia e in Belgio. Il risultato ha incontrato il dissenso delle organizzazioni islamiche svizzere e quello di Amnesty International che giudica l’esito del voto come una chiara violazione dei diritti umani, della libertà d’espressione e della stessa Costituzione Svizzera, costituendo un chiaro segno di intolleranza verso un’altra cultura. Secondo Amnesty International è invece necessario promuovere l’attuazione di progetti e misure per incoraggiare la partecipazione delle donne nella vita sociale e politica del paese. Inoltre, si legge dal sito dell’organizzazione, per cambiare la Costituzione ticinese con il risultato del voto in merito al divieto di indossare il burqa, è necessario ottenere l’approvazione del Parlamento federale. Amnesty International si attende una chiara posizione dell’Assemblea federale a favore della difesa dei valori sanciti dalla Costituzione svizzera, in particolare il diritto alla libertà di religione.

In tv, sui giornali o comunque in foto, siamo soliti vedere quel tipo di burqa definito completo o afghano che obbliga le donne ad essere interamente coperte, dalla testa ai piedi. Questo per evitare che possano essere guardate da altri uomini che non siano i mariti, i figli, i fratelli, i padri. Ed ecco che per strada non si incontrano delle donne, ma tanti corpi completamente nascosti sotto lunghi abiti blu o neri. Tanti corpi completamente uguali. Senza alcuna differenza. Senza alcuna personalità. Senza alcuna individualità. Perché in quei luoghi, alla donna non è concesso avere individualità, a dire il vero non sono neanche considerate “individui”. Sono semplici strumenti di procreazione. Semplici oggetti da sfruttare. Il problema non è l’abito in sé ma l’idea della “donna” che si manifesta attraverso questo particolare indumento. Il fatto che le donne occidentali possano indossare ciò che vogliono o che vengano mostrate “senza veli” su giornali e in Tv, non è un segno di emancipazione. Anzi, in certi casi questo falso femminismo cela un infimo e radicato maschilismo. Forse la parità dei sessi non è stata raggiunta in nessuna parte del mondo ma ci sono luoghi in cui la discriminazione è davvero lampante, dove le donne non hanno alcun tipo di diritto, posti in cui nascere donna può essere davvero una maledizione: vendute dalle famiglie, lapidate per adulterio, sfigurate con l’acido. Una vita di discriminazioni e abusi che inizia da bambine, quando magari vengono date in spose a uomini che non le tratteranno come fanciulle ma come mogli, compagne, pretendendo l’adempimento di tutti gli obblighi coniugali che il matrimonio comporta.

Sorge quindi spontanea una domanda: questo referendum può essere considerato un passo avanti per tutte quelle donne che, contro la loro volontà, devono obbligatoriamente indossare un indumento che le ricopre interamente? Oppure, come sostiene Amnesty International, è un segno di intolleranza verso un’altra cultura che viola la libertà di espressione e di religione delle donne islamiche? Qual è la verità, o meglio, cosa è giusto e cosa è sbagliato? È questa la strada giusta per garantire anche alle donne di tutto il mondo il diritto all’individualità e alla libertà d’espressione?

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