La prima volta che ho capito che la disabilità era, prima ancora che una condizione oggettiva per qualcuno, un problema mio è stato quando ho conosciuto Matteo (nome di fantasia), saranno stati 15 anni fa.
Arrivò nel nostro appartamento universitario al secondo piano di una palazzina fatiscente, con un ascensore troppo piccolo per la sua sedia a rotelle, che gli imponeva una piccola acrobazia per sollevare una delle due ruote e incastrarcisi dentro un po’ di traverso. Al tempo era il ragazzo di una nostra nuova coinquilina e, di fatto, divenne a sua volta a tutti gli effetti nostro coinquilino.
Appena entrati si rese conto di aver dimenticato il portafogli in macchina e chiese a lei “fai un salto tu a prendermelo?”.
“No, non ho voglia, vai tu”, rispose lei. Lui provò a insistere ancora un paio di volte, ma non ci fu storia. Così finì che lui girò la carrozzina, si incastrò di nuovo con quel saltino nell’ascensore, coprì i 200 metri in andata che lo separavano dalla sua auto e 200 di ritorno.
Io ero sconcertata: come si può essere così stronze?

In realtà lei non era stronza, stava semplicemente trattando il suo ragazzo come il suo ragazzo, punto, non il suo ragazzo-disabile, il suo ragazzo-poverino, il suo ragazzo-da-accudire-come-una-crocerossina. Quello fu l’inizio di una lunga amicizia, soprattutto con lui.
Sulla sedia a rotelle Matteo ci è finito adolescente, come succede a tanti, a seguito di un incidente in vespa:

“Sono stato fortunato – mi disse una volta -: in quel fosso ci potevo morire, invece sono qui, handicappato ma vivo e posso fare quello che voglio”.

Non disabile, né diversamente abile, ma handicappato ha sempre detto lui, perché chissenefrega del politically correct: a volte il galateo linguistico è solo l’altra faccia della compassione o l’evoluzione lessicale del “poverino” di chi ti vede come un disabile della vita, una persona da commiserare o che non avrà possibilità (o comunque sempre meno di una “normale”). Dà più fastidio quella di un handicappato che, al netto di ogni accezione, resta semplicemente una definizione.

Matteo vive da solo all’estero, sta facendo una carriera pazzesca in un settore complesso; Matteo ha fatto basket, nuoto, sci e qualsiasi altro sport anche da paraplegico; guida l’auto, viaggia un sacco in qualsiasi posto. Matteo, tra le altre cose, cucca anche tantissimo e pure donne bellissime perché, oltre a essere intelligente e matto, è veramente un bel pezzo di ragazzo, ma questo non è un suo merito. È quel genere di uomo che, quando lo porti a conoscere i tuoi genitori, entra che mamma e papà magari pensano “poverino, ma nostra figlia si rende conto di cosa l’aspetta?”, ed esce tra i baci, gli abbracci e i torna presto.
Perché Matteo è una persona bella, forse resa ancora più bella dalla disabilità che ne ha forgiato il carattere e se finisci in quel suo vortice di energia, capisci che, fuori da ogni retorica, la sua disabilità è una condizione oggettiva, non un ostacolo alla felicità, al successo, a una vita normale. Succede, al suo fianco, di sentirsi più dis-abili, più privi di abilità e di risorse di lui, e di trovarti a pensare che vorresti essere un po’ come lui. Perché Matteo, come Alex Zanardi, Bebe Vio e tantissimi disabili di cui non conosciamo il nome, proprio perché hanno imparato ad andare oltre i limiti oggettivi di un corpo, hanno scoperto che quelle barriere apparentemente insormontabili si possono superare e, con esse, tante altre che per noi persone normodotate che non abbiamo mai avuto la necessità di uscire dalla nostra zona di conforto restano tali: limiti. Per noi, non per loro.

La mia collega Milo, un paio di giorni fa, mi ha segnalato questo post di Rebecca Zamperini. L’ha scritto nella giornata mondiale della disabilità (3 dicembre).
Rebecca è una giovane donna, che ha avuto la fortuna di essere stata cresciuta, ma prima ancora guardata da due genitori non come la figlia-senza-una-mano-poverina ma come la figlia nata senza una mano punto.
Se il primo modo in cui un bambino impara a identificarsi è attraverso gli occhi dei suoi genitori, Rebecca ha avuto una bella prospettiva da cui conoscersi, quella di Paola Sucato, la sua vulcanica madre, un’istituzione in continuo fermento nel food digitale, e Marco Zamperini, il “funky prof” cui il web italiano deve molto, mancato purtroppo nel 2013.
Rebecca è nata, come il pesciolino Nemo, senza la sua “pinna” destra; Matteo le sue gambe le ha perse da adolescente: la loro disabilità è una condizione reale e oggettiva, ma non li definisce, non ne determina la felicità o l’insuccesso nella vita, privata o professionale, non li rende a priori meno qualcosa rispetto a chi una disabilità fisica non ce l’ha.

Questo post di Rebecca racconta la disabilità senza retorica: parla di occhiate di compassione e di bambini che chiedono semplicemente “perché non ha una mano?” a genitori che li zittiscono imbarazzati e umiliati; parla di quel modo supponente che abbiamo noi normodotati di vivere la disabilità a partire da un presupposto di inferiorità dell’altro o da un concetto di felicità e soddisfazione che si identifica in uno standard di perfezione che non ci assicura, in realtà, né l’una né l’altra.
Ci dice perché la disabilità ci imbarazza e a volte ci mette a disagio e ci dà occhi diversi per guardarla d’ora in avanti:

Ho letto che oggi è la giornata mondiale della disabilità, e oggi vi scrivo un po’ della mia.

Sono nata senza l’avambraccio destro da due genitori che mi hanno educato con questa filosofia: per ogni cosa da fare, c’è sempre un modo di farla – anche con una mano sola.
Ed io ci credo, che ci sia per me un modo per fare qualsiasi cosa: e negli anni l’ho provato. Bisognava solo avere la pazienza di capire quale fosse, ed io sono stata così fortunata da avere dei genitori che erano pronti a scoprirlo, per poi insegnarmelo: ricordo mia mamma esercitarsi a rompere le uova con una mano sola, e mio padre cercare su un pc preistorico immagini di bambini nati come me, e mostrarmele per farmi capire che non ero l’unica; una menzione speciale va a mia zia, che mi ha portato a vedere Alla ricerca di Nemo, nel quale ho trovato la mia prima rappresentazione mediatica in un pesce pagliaccio dalla pinna destra atrofica.

Un modo per allacciarsi le scarpe, per legarsi i capelli, per piegare le magliette; un modo per lavare i piatti, per fare judo, e per legare la bici. E non rinunciare mai a nulla, non rassegnarsi mai a non trovare il mio metodo.
Quando ero piccola, ho più ricordi di bambini che giocavano con me senza farsi problemi, piuttosto che di quelli che mi prendevano in giro. Ce ne sono stati di bulli, ma dopo aver capito che non attaccava, semplicemente smettevano.
Sono sempre stati gli adulti, e specialmente gli anziani ad infastidirmi di più: i “poverina”, le occhiate di compassione, il supporre che siccome ero disabile fisicamente allora lo ero pure mentalmente. Ho sempre preferito un bimbo curioso che chiedeva “mamma, perché quella ragazza è senza una mano?” piuttosto che un adulto che rispondeva “non guardare quella ragazza, poverina!”.

E dire che la risposta è sempre stata così semplice, e sempre la stessa da quando ho imparato a parlare: sono nata così. Tre parole collaudate, dette a bimbi e adulti, sempre con un sorriso, e tradotte all’occorrenza in inglese, spagnolo, turco, arabo e olandese.
E poi ridere, ridere sempre e comunque, e Halloween con lo scherzo della protesi che cade, e le battute con i compagni del liceo e dell’università, e le tentate prese in giro o offese che non c’erano più.
Quindi, in definitiva: un disabile è qualcuno che può fare le stesse cose che potete fare voi nati tutti completi: gli servirà magari più tempo, o un’attrezzatura speciale, e quasi sicuramente più fatica. Ma alla fine ce la farà.

Quello che non è da fare è il trattare una persona disabile come qualcuno che “per definizione” ha una qualità di vita più bassa della vostra, e che quindi è destinato a commiserazione, sguardi tristi e parole condiscendenti.
Non voglio nulla di tutto questo.
Io voglio delle soluzioni, voglio trovare il modo per fare ogni cosa; e penso che chiunque debba avere questa possibilità.

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