La vicenda di Harvey Weinstein, il grande produttore americano accusato di violenza sessuale da un numero crescente di star, sta facendo tremare Hollywood, ma anche l’Italia che si è svegliata nuda, senza il velo dell’apparenza a salvare la nostra cultura dove giusto il femminismo, a quanto pare, è meritocratico, e vale “solo se” una donna ne viene reputata “degna”.

Ma è riduttivo derubricare a una lotta tra maschilismo e perbenismo la spaccatura che si è venuta a creare, anche tra persone tutt’altro che bigotte o culturalmente arretrate, sullo stupro denunciato 20 anni dopo da Asia Argento.
 Di sicuro, c’entra in questa storia un problema portante di questi tempi così politically “incorrect” nei fatti, ma dominati dalla gogna del politically correct in apparenza che impedisce, a volte, di chiamare semplicemente le cose come stanno, dove innocui aggettivi sono stati demonizzati e sostituiti da perifrasi puritane e dove qualsiasi convinzione diventa una crociata alla convinzione contraria.

In che senso? A sollevare la rivolta non è tanto la denuncia di Asia Argento, quanto il fatto che lei dopo abbia avuto una relazione pluriennale e conseguenti rapporti consenzienti, per sua stessa ammissione, con il suo carnefice, si sia fatta fotografare con lui sorridente sui red carpet, abbia accettato regali costosi, abbia affidato a lui la produzione di quello che oggi definisce il suo video denuncia, abbia firmato la petizione, sempre insieme a Weinstein, a favore di Roman Polanski e altre cose illustrate, tra gli altri, da Selvaggia Lucarelli:

Ingiustificabile il fatto che lo sdegno si sia scagliato sulle donne e non su Harvey Weinstein che, sebbene abbia ammesso la fondatezza di tutte le accuse, si è giusto meritato una nota a margine nei commenti indignati di chi “sì, ok, lui è un porco ma…”.
Ingiustificabili i toni di testate giornalistiche e personaggi televisivi, contro cui andrebbero presi provvedimenti che nulla hanno a che vedere con la censura, né ledono la libertà di parola, dal momento che gli stessi ledono semmai la dignità delle persone.

Ma esistono alcune cose che chiunque di noi, donne e uomini, ha probabilmente pensato e non dirselo significa autocensurare un pensiero che sappiamo essere controverso e non politically correct in questi tempi di nuove (ed effettivamente mai sufficienti) lotte femministe.
 Ed è quello espresso – male, a mio avviso e con mio grande stupore visti gli autori – dalla Lucarelli e da Luxuria.

Non è difficile per nessuno comprendere come una violenza si consumi senza che la vittima, stordita, spaventata, riesca a opporre una reale resistenza. O almeno spero, ma temo a questo proposito il riscontro con la realtà. 
La stessa Asia non ha cercato alibi nel dire:

Mi sono sentita responsabile. Se fossi stata una donna forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l’ho fatto. E’ stato un trauma orribile.

Ma a chi di noi è successo deve avere l’onestà intellettuale e morale di dire che quello che Selvaggia Lucarelli e Vladimir Luxuria hanno avuto, a modo loro, il “coraggio” – mi si passi il termine – di esternare, è passato anche nella nostra testa e, in parte, non riesce ad andarsene e possiamo semmai limitarci a tenerlo a bada.

Perché? Un po’ perché ha ragione Michela Murgia quando ha detto

Viviamo in un Paese in cui non servono nemmeno i maschi per essere maschilisti

e anche i più illuminati di noi, probabilmente, questa cultura patriarcale ce l’hanno nel sangue, annidata come un virus che ci è stato iniettato da piccoli. L’abbiamo saputo sconfiggere con la consapevolezza, la cultura, l’empatia, ma resta è lì, latente e ostinato, in attesa di aggredirci alla prima distrazione.
Ammetterlo è motivo, per la sottoscritta, di vergogna, perché va a minare qualsiasi possibile e appagante “posa” da femminista senza se e senza ma. Non farlo, sarebbe codardia e perbenismo camuffato da impegno sociale e lotta femminista. Roba da bigotte “alternative”.

Ho pensato anch’io che fosse “comodo”, di più, che fosse “sbagliato” accettare i compromessi più schifosi non per una questione di vita o di morte, ma per un prestigio o un lusso, come quello del successo o una carriera nel cinema, e poi gridare allo scandalo a “risultato ottenuto”.
 Ho pensato anche io alle donne che probabilmente non sono un nome e un cognome da noi idolatrato e ricoperto d’oro solo perché quando si sono trovate davanti all’obolo di darla a quello giusto hanno detto vaffanculo e quel calcio nelle palle lo hanno dato.
Ci siamo passate un po’ tutte, o in molte, al bivio dell’accettare o non accettare il favore di qualcuno che, guarda caso, se sei donna e vagamente piacente, passa sempre per un letto e chi di noi ha detto no sa bene dov’è arrivata chi non non lo ha detto, perché magari era quel posto che, per merito, avrebbe dovuto essere nostro.

Si paga con la rabbia, la frustrazione e tanto altro quel senso di impotenza e allora è facile prendersela con Asia Argento, con Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie o le altre, le “complici”, che hanno pagato il loro silenzio o il loro dramma personale con il successo e i soldi.
La stessa rabbia non l’avremmo riservata alla donna delle pulizie o l’operaia che si piega al volere del capo pervertito per paura di perdere un posto di lavoro. 
Lei ha chinato il capo per la sopravvivenza, le altre per il superfluo.

Greta Priviteri di Vanity Fair ha chiesto a Michela Murgia 
E chi accusa queste attrici di aver goduto dei benefici di certe scelte? La risposta, confesso, mi ha aiutata molto per capire i sentimenti controversi che questa vicenda ha suscitato nella sottoscritta:

Parte da un punto sbagliato. Infatti, viene spesso messo l’accento su quello che si ottiene accettando il ricatto sessuale. Poi, se raggiungi qualcosa, secondo questa stupida teoria, non puoi più dirti ricattata. Ma si dovrebbe partire da un altro presupposto: queste donne potevano discutere le condizioni del ricatto? Se desideravano con tutte loro stesse di fare le attrici, la colpa è di quel qualcuno che le ha in qualche modo costrette a saltare nel suo letto o è loro che avevano un sogno? Dobbiamo discutere la condizione a livello iniziale. Chiediamoci: poteva ottenerlo diversamente? Poi c’è chi è forte e riesce a dire di no, dipende da quanti anni hai, che esperienze hai, in che condizione psicologica sei.

Perché non riuscivo a dire con lo stesso sdegno di sempre “Asia è una vittima”, con lo sdegno che diventa nausea per quelli che “sì ma lei un po’ se l’è cercata” o “se non si è ribellata è perché le piaceva”?
Ho capito che la compassione e il disprezzo, spesso, dipendono da cosa “hai ottenuto”. Se la donna delle pulizie o l’operaia col tempo diventa la responsabile di un reparto con un ruolo sicuro e uno stipendio più che dignitoso ecco che la nostra compassione finisce e diventa una “puttana”. 
L’empatia va meritata. E se hai ottenuto qualcosa, la molestia diventa il “valore” che hai dato al tuo obiettivo, il “pagamento” per quanto hai ricevuto in cambio e, quindi, non meriti compassione. È la versione, se possibile ancora più subdola, del se ti stuprano e hai la minigonna o un atteggiamento provocante, allora sei una “troia che se l’è andata a cercare”, mentre se sei vestita come l’omino Michelin e magari pure un po’ sfigata allora sei la vittima.

Asia, Gwynet e le altre ora denunciano e “piagnucolano ingrate”, secondo alcuni, dopo aver fatto incetta dei favori ottenuti in cambio di quello che hanno subito in silenzio. Questo è quello che ci dice il “femminismo meritocratico”.
È vittima la ragazza che resta inerme a subire la violenza, perché troppo spaventata e incapace di reagire, ma da questa non ottiene nulla. È vittima la donna che è soggiogata a un uomo senza trarne alcun giovamento personale. Ma non esiste più possibilità di denunciare e di sentirsi vittime se la sudditanza fisica e psicologica a un uomo ti ha portato ad appartenere a un elite cui tanti aspirano.
In che condizioni psicologiche era l’Asia che ebbe la relazione con Harvey Weinstein? Quanto ha pesato il fatto di non aver saputo sottrarsi la prima volta, nel sentirsi colpevole e in condizione di non poter più denunciare se non lo hai fatto subito?
Non abbiamo consultato psicologi o persone titolate a farlo, prima di emettere la nostra sentenza.  Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che la violenza ha varie forme.

Sì, ma le donne che hanno detto no e non hanno avuto successo?
Sì, ma le vittime di stupri “veri”, quelli per strada, quelli dove tu ti ribelli ma subisci uguale e rischi pure di essere ammazzata? Così si manca loro di rispetto, così si mettono sullo stesso piano, così è ingiusto, loro meritano di… queste altre non sono certo delle sante.

Obiettano i più. Eccolo il femminismo “meritocratico”, che vuole la graduatoria delle vittime per decidere chi ammettere nella rosa della nostra compassione.
Non mi risulta che né Asia, né nessun’altra star stiano sostenendo di essere più vittime o vittime tanto quando le altre di cui sopra.
Asia Argento non è una santa, non lo è nessuna delle vip hollywoodiane coinvolte in questa brutta storia, non lo è nessuna di noi che, almeno in un momento della sua vita, secondo la “meritocrazia”, sarebbe stata esclusa dalla lista delle vittime riconosciute per un ammiccamento, un abito o per la concessione a un capo bavoso di dirci quella parola di troppo, nonostante lo schifo che ci faceva.

La verità è che abbiamo perso l’occasione per parlare di un altro volto della violenza: quello che passa per l’abuso di potere e non ha a che fare necessariamente con un uomo che ti mette in un angolo, all’improvviso, e ti assale. È una violenza subdola, di cui ti senti colpevole perché allunga la mano dopo che tu non sei stata in grado di mettere al suo posto l’uomo che lo fa quando le sue molestie erano ancora solo parole, atteggiamenti, allusioni ogni giorno più insistenti e che nulla hanno a che fare con uno che “ci prova” o ti sta corteggiando.
La maggior parte di noi quando è arrivata quella mano probabilmente ha finalmente trovato la forza di andarsene e respingere, insieme a quelle dita sudicie, anche il sogno che per meritocrazia ci spettava di diritto e non è mai diventato realtà perché non abbiamo pagato quel “prezzo” finale.
Siamo state migliori? Vorrebbe dire stilare un’altra graduatoria. Forse sì, forse abbiamo avuto solo la fortuna di essere più “carrozzate” e preparate emotivamente e psicologicamente, forse avevamo accanto qualcuno che ci ha dato la forza.

La verità è che abbiamo perso l’occasione di dire alla ragazza che entra nel mondo del lavoro, che può denunciare e gridare tutto il suo schifo anche se non ha dato uno schiaffo la prima volta al superiore che ha finto di sfiorarla casualmente in ascensore e che ogni giorno diventa più insistente e poi ancora di più. Abbiamo perso l’occasione di dirle che può fermarlo alla seconda, quinta, decima o ventesima volta anche se non è riuscita a farlo prima.
Del resto non avremmo potuto dirle nulla di questo, perché la verità è che se lo facesse sarebbe per ancora tante, troppe persone, una puttana, cui è piaciuto e ora si è stancata.

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