Da qualche anni si assiste, finalmente, alla necessità di raccontare le storie, spesso passate in sordina, di grandi donne. Nel novero di coloro che, con le loro azioni e dedicando l’intera loro esistenza a determinate battaglie, hanno contribuito a cambiare il corso degli eventi, ci sono ce ne sono molte. Donne che, in epoche in cui la figura femminile era relegata a poco più che a un oggetto complementare del marito o a prolungamenti naturali delle famiglie, pacificamente ma con tenacia, hanno scelto di scrollarsi di dosso il ruolo che qualcun altro, che la società, aveva deciso per loro, per mettersi in prima linea nella difesa della libertà di altri, per reclamare diritti negati, per cambiare la storia, appunto.

A lottare nel periodo attuale per i propri diritti e per quelli della comunità lgbt c’è Evan Rachel Woods, come ci ricorda il suo discorso fatto durante la consegna del premio per la Human Rights Campaign Visibility Award

Sono tante, queste eroine silenziose, ma Joan Trumpauer Mulholland è sicuramente una di queste.

Nata nel 1941 a Washingthon, ma trasferitasi appena bambina ad Arlington, in Virginia, Joan cresce in una famiglia molto religiosa, originaria della Georgia, dove i bisnonni erano stati schiavisti fino alla Guerra di secessione americana. Seppur non ricchi i suoi genitori hanno una governante nera che la alleva nei primi mesi di vita, durante la malattia della madre. Mentre lei cresce, negli Stati Uniti si fa sempre più tesa la situazione tra bianchi e neri per via della segregazione razziale, con le persone di colore che non possono frequentare gli stessi luoghi degli altri, hanno locali riservati, mezzi pubblici su cui devono viaggiare per non mescolarsi ai bianchi, persino spazi in chiesa o nei tribunali che li tengono debitamente separati dalla maggioranza bianca.

Una vera e propria ghettizzazione, insomma, che Joan percepisce, non sbagliando, completamente in disaccordo rispetto ai principi morali di amore e di uguaglianza insegnati proprio dalla chiesa. Ad appena 10 anni Joan si accorge del divario economico tra le razze, e in quel preciso momento si ripromette che avrebbe fatto qualcosa, avrebbe lottato, per cambiare la situazione… per cambiare il mondo.

Nonostante la famiglia cerchi in tutti i modi di allontanarla dai suoi ideali giudicati “pericolosi”e dal possibile scandalo causato da una figlia che frequenta persone di colore, obbligandola a frequentare la Duke University in North Carolina, invece di qualche università dell’Ohio o del Kentucky, Joan nella primavera del 1960 partecipa al suo primo sit-in, per cui verrà arrestata e sottoposta a esami psichici, dato che non era certo frequente vedere una ragazza bianca scendere in prima linea a favore dei diritti dei neri e, ovviamente, questa possibilità era da molti considerata come una “devianza”.

Unitasi nell’estate del 1961 ai Freedom Riders, che per protestare contro la segregazione sugli autobus viaggiavano attraverso tutti gli stati del sud proprio a bordo di un pullman, venne coinvolta nel pestaggio compiuto da alcuni  membri del Ku Klux Klan che, armati di mazze e tubi di ferro, bloccarono il mezzo in Mississippi. In quell’occasione, dopo essere stata malmenata insieme agli altri appartenenti ai Freedom Riders, venne arrestata dalla polizia locale, costretta a denudarsi e a subire umilianti e invasivi esami anche a livello vaginale, prima di essere condotta, con le altre detenute, nel braccio della morte, dove rimase per un mese in condizioni a dir poco inumane.

Il carcere, tuttavia, non fu sufficiente per Joan, che anzi uscì di prigione rafforzata negli intenti e decisa a proseguire la propria battaglia.  Negli anni che seguirono fu la prima donna bianca a iscriversi a una scuola per afroamericani, si sedette al fianco dei neri in un ristorante per soli bianchi a Jackson e contribuì a organizzare la famosa Marcia di Washington per il lavoro e la libertà, la stessa, per intenderci, dove Martin Luther King pronunciò il suo discorso più famoso, I have a dream.

Divenne uno degli obiettivi e dei nemici peggiori del KKK, venne malmenata diverse volte e sottoposta dalle pubbliche autorità a impietosi esami  psichiatrici, ma niente riuscì a fermarla; per anni nel suo portafoglio ha portato un pezzo di vetro delle finestre della chiesa battista di Birmingham, fatta saltare in aria dal Klan, per non dimenticare mai i 4 bambini innocenti che erano morti nell’attentato.

Fonte: web

Dopo aver lavorato per lo Smithsonian Institution, il Dipartimento del Commercio e quello della Giustizia degli Stati Uniti ed essersi dedicata all’insegnamento della lingua inglese agli stranieri, oggi Joan, settantaseienne, vive in Virginia, ma non ha smesso di lottare, fedele a quello che è stato il principio ispiratore di tutta la sua vita, nessuno è libero, se tutti non sono liberi. Continua a occuparsi dell’associazione da lei fondata, la Joan Trumpauer Mulholland Foundation, che intende educare i più giovani sulla storia del Movimento per i Diritti Civili e spiegare loro come possono diventare attivisti nelle comunità  di appartenenza.

Se Martin Luther King è passato alla storia per il suo I have a dream, Joan quel sogno lo condivideva, e ha lottato per far sì che si realizzasse; anche a lei spetta quel posto d’onore riservato solo a chi, con tenacia, coraggio e semplicità, è riuscito a cambiare il mondo, per renderlo un posto migliore.

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