Sembra incredibile anche solo immaginare di prefigurare un contesto in cui tutto ciò possa accadere veramente, eppure in alcune aree del mondo questa è una realtà vivida e consistente, e lo è oggi, in questo momento. Non parliamo di situazioni collocate temporalmente a sufficiente distanza da noi da poter far dire a qualcuno: “Beh, in fondo quelli erano altri tempi, c’era un’altra mentalità” (il che non rappresenterebbe comunque una giustificazione), stiamo parlando di quello che accade esattamente adesso, in molti paesi africani rimasti ancorati a tradizioni tribali così come in villaggi asiatici legati a retaggi socio -culturali piuttosto antiquati, ma anche in civilissimi paesi del Sudamerica, dove l’economia ha fatto passi da gigante, la democrazia, soffocata a lungo dal giogo di golpe militari e repressioni, ha ripreso nuova linfa e vigore, e i diritti civili sembrano essere tenuti di gran conto.

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Sembrano, il termine è d’obbligo, perché la realtà, in certi frangenti, può assumere pieghe diverse, ben più spiacevoli di quanto le persone vogliano lasciar trasparire, e mostrare lati a dir poco scioccanti.

Accade, ad esempio, che in Cile la violenza di genere sia praticamente all’ordine del giorno; sembra impossibile anche solo pensarlo, in Cile persino il presidente è una donna, Michelle Bachelet, per giunta al suo secondo mandato dopo l’elezione del 2005, non può essersi perpetrata davvero, nel tempo, una cultura misogina e sessista tale da relegare le donne al ruolo di mero oggetto sessuale dell’uomo e da rendere l’abuso un’orrida “normalità”. Eppure ci sono storie, testimonianze, raccolte da un reportage di TPI, che gettano una luce terribile sulla realtà di famiglie, case, interi paesi, dove la violenza è abitudine, la brutalità la regola e l’abuso assume una raccapricciante lievità.

Secondo i dati del procuratore nazionale, solo nel 2016 nel paese sudamericano sono state registrate quasi 150 mila denunce per violenza domestica, di cui il 49,38% per lesioni. I media locali parlano di un aumento costante nel corso degli anni, e proprio per questo i movimenti che lottano per i diritti delle donne, negli ultimi tempi, si stanno facendo faticosamente largo. Ma il loro compito non è facile, in una mentalità totalmente maschilista che è riuscita a compenetrare in profondità, assorbendo anche – ed è forse la cosa più terribile da pensare – molte donne, capaci di giudicare “non gravi” gli abusi, anche compiuti in famiglia. Come la madre di Veronica, ad esempio.

Quando mia madre mi disse: “Non è grave”

Fonte: web

Due anni fa Veronica ha rischiato di essere uccisa dal suo compagno, e a malapena, a TPI, riesce a ricordare quei giorni d’inferno trascorsi al suo fianco.

Ricordo che lui mi staccava la pelle a morsi – racconta – Sono arrivata al pronto soccorso con l’utero lacerato, ma le nostre famiglie dicevano che non era poi così terribile. Che era un bravo uomo, solo molto geloso. All’epoca facevo la responsabile di un legnificio, ero a capo di un gruppo di uomini e questo lo infastidiva molto. Io cercavo di normalizzare la situazione ma era un crescendo di gelosia e possesso.

Quella sera volevo uscire con dei colleghi ma lui diceva che non ne avevo il permesso. Io uscii lo stesso e lui mi cercò ovunque, finché non mi trovò in un pub non lontano da casa. Mi fece salire su un taxi e mi portò nel suo appartamento. Avevo paura ma credevo che sarebbe stato solo l’ennesimo litigio. Una volta arrivati aprì la porta di casa e mi spinse dentro talmente forte che finii incastrata fra il divano e il muro. Lo guardai ed era irriconoscibile, era una bestia e mi si buttò addosso urlando che voleva sapere con chi lo avevo tradito. Cominciò a togliermi i vestiti, a odorarmi, a mordermi. Cercava tracce di un altro uomo, così mi infilò le mani dentro, strappandomi l’utero. Sentii un dolore disumano ma cercavo di difendermi con tutte le forze, pensavo ai miei figli.

Veronica riesce a gestire la situazione, assecondandolo, solo al fine di calmarlo,  perché teme per la sua incolumità.

Tutto a un tratto disse che dovevamo morire insieme quella notte, e andò in cucina a prendere un coltello. Mi alzai senza far rumore, presi scarpe, cellulare e uscii da quella casa. Nuda e insanguinata correvo per il quartiere chiedendo aiuto, ma nessuno mi aprì la porta. Fermai un taxi per andare in questura, da dove poi mi mandarono al pronto soccorso. In quel momento capii che nessuno mi difenderà mai, siamo solo io e i miei figli. Ora sono più forte perché so che tutto dipende da me.

Questa convinzione gliel’hanno data anche le parole di sua madre, dopo che Veronica si è sfogata con lei in seguito a un brutto sogno:

Da piccola ho subito abusi sessuali e poco tempo fa un tentativo di stupro. L’altro ieri ero angosciata. Avevo fatto un brutto sogno, ho chiesto a mia madre di abbracciarmi e in tutta risposta lei mi ha detto che sono esagerata: ‘Un altro uomo che ti tocca non è poi così grave’. Persino le mie amiche mi hanno chiesto com’ero vestita quando quell’uomo ha cercato di violentarmi: ‘Tu hai un bel sedere. Magari lui non ha resistito alla tentazione. È normale’.

Come Veronica, tantissime altre donne cilene hanno trovato l’orco negli uomini della loro vita, non sempre compagni, mariti o fidanzati; spesso a essere il mostro era il padre, come nel caso di Maribel.

Maribel, quando il mostro ti ha messo al mondo

Quando ero piccola mio papà picchiava mia madre e me – racconta la donna, 36 anni, oggi moglie e madre felice di tre figli – Quando litigavano dovevo nascondermi sotto il letto ma poi sentivo le urla di mamma e correvo a difenderla, così i pugni e i calci li prendevo anch’io. Sento tanta rabbia, tanta: vorrei ridargli tutti i pugni che lui mi ha dato ma non posso. È mio padre capisci?

Ho subito la violenza di mio padre e da quando avevo dieci anni mio zio, il fratello di mia madre, cominciò a molestarmi finché non mi violentò. Dopo alcuni anni presi coraggio e lo dissi a mia madre. Eravamo in cucina mentre lei tagliava delle verdure per il pranzo. Quando glielo dissi rimase ferma con il coltello in mano, si voltò e camminò verso la porta ma di scatto si girò verso di me. Senza guardare poggiò il coltello sulla verdura già tagliata, si asciugò le mani con il grembiule e venne dove ero seduta. ‘E tu cosa gli avevi fatto, perché l’hai sedotto, dimmi!’, urlava mentre mi teneva il mento con le sue mani umide e fredde.

Maribel adesso ha superato i suoi traumi, la depressione in cui rischiava di cadere, ma racconta:

 Convivo ancora con mio padre, e i miei parenti mi giudicano perché lui adesso è malato ed io non sono disposta a prendermene cura come vorrebbero. Per lui faccio giusto il necessario. Vivo in un limbo di sensi di colpa.

Rosita ha un’altra storia di violenza alle spalle, psicologica e verbale prima ancora che fisica.

Prima le umiliazioni, poi le botte

Nei 32 anni in cui è durato il suo matrimonio, Rosita ha dovuto subire umiliazioni di ogni tipo, anche davanti ai familiari, e in seguito la violenza fisica.

Mi umiliava continuamente, anche di fronte ai nostri parenti. Dopo vennero le botte. Mio marito mi picchiava persino per aver rotto un bicchiere e io pensavo che avesse ragione, dopo tutto aveva comprato lui quel bicchiere ed ero stata io a romperlo. Altre volte era perché la cena non era buona o perché nostro figlio era stato richiamato a scuola. È colpa mia, pensavo. Come al solito, quella sera litigavamo e lui mi disse che quella non era casa mia e che me ne dovevo andare; mi cacciò via a notte fonda. Così mi trovai da sola a una fermata d’autobus, sotto la pioggia. Non avevo nessuno, tranne me stessa. Mi chiesi se meritavo quello che stava accadendo e la risposta è stata no. Ho promesso a me stessa di non tornare mai più in quella casa. Ho preso consapevolezza della situazione quando ho capito di essere completamente da sola ma allo stesso tempo di non essere una vittima. In quel momento mi sono accorta della mia forza. Il cambiamento arriva quando pensiamo a noi stesse come donne capaci di cambiare la cose e smettiamo di provare vergogna. Sono riuscita a cambiare la mia vita. Ho un lavoro, ho comprato una macchina e la guido io. 

I movimenti femminili lottano per cambiare le cose

Visti i terribili dati registrati riguardanti la violenza sulle donne, in Cile sono sempre più numerosi i movimenti creati per portare avanti i diritti della popolazione femminile, e anche per cambiare la mentalità spesso radicata anche nelle donne stesse. Tutte unite sotto lo slogan #Niunamenos (Nonunadimeno) che rappresenta la rinnovata identità della lotta delle donne del Sud America.

Ma c’è anche Red de Monitoras, collettivo del quartiere dove vive Veronica, ma che riunisce anche Maribel, Rosita e tante altre vittime di abusi, con l’obiettivo di sostenere e orientare le donne che subiscono violenza di genere.

La nostra rete nasce nel maggio del 2016 – spiega la coordinatrice Liliana Neira – Facciamo diverse attività ma quella che ha avuto più successo sono i murales. Il nostro messaggio arriva a molte più persone così.

Già, le donne di Red de Monitoras hanno creato alcuni fra i più bei murales contro la violenza di genere; Veronica, ad esempio, ne ha dipinti alcuni a Lo Prado, quartiere della periferia di Santiago con il più alto tasso di delinquenza e il numero maggiore di casi di violenza domestica.

Fonte: Mariana Diaz Vasquez

I murales, che hanno persino vinto un premio a livello nazionale, consegnato proprio dalla presidentessa Bachelet, sono stati distribuiti in cinque zone strategiche, e raccontano di diverse tipologie di violenza: No alle molestie per strada. No alla violenza etnica o razziale. No alla violenza ostetrica. No alla violenza nella coppia. No alla strumentalizzazione del corpo delle donne sui mezzi di comunicazione.

Se questa arte potrà cambiare le cose, solo il futuro potrà dircelo. Di certo, unita al loro coraggio e alla tenacia, ha cambiato già la vita di queste donne.

 

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