Sono passati 70 anni. Eppure non va via quel tarlo che sta proprio lì, in un angolo di mondo popolato da un’umanità “perfetta”. Evoluzione, invenzioni, scoperte. Ma l’uomo non cancella i propri istinti, quelli più primari, quelli di supremazia, di superiorità su qualcun altro.

Spinto da una foga di… sopravvivenza forse? Di identificazione in qualcosa? Forse mascherata da invidia, chi lo sa. Paura. Una soddisfazione malata nel vedere persone arrancare, morire per un sì o per un no. Sentimenti primordiali che ci comandano tuttora.

E tornano come un’ondata che travolge e blocca, facendo riflettere, ogni 27 gennaio; quel 27 gennaio furono abbattuti i cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa.

Dal 2000, quella data viene ricordata ogni anno in quello che stato definito il Giorno della Memoria. Una ricorrenza nata per commemorare, appunto, la Shoah e tutto quello che di disumano ha comportato.

Sono infatti oltre sei milioni gli ebrei uccisi a causa del progetto di sterminio nazifascista, un folle progetto capitanato da Adolf Hitler.

Un’eredità pesante, per le persone sopravvissute soprattutto, che non cesseranno mai di ricordare, imprigionati oggi nei ricordi, come allora.

Quando la disumanità diventa una pericolosa quanto normale routine, quando ci si sente privati del valore di persona, fintanto a non riconoscere più il confine tra persona o cosa, quando questo confine si dimentica, l’anima viene segnata. Così come il corpo. Un crimine indescrivibile a parole.

Importantissimo non dimenticare, incastrare questa spaventosa esperienza della nostra storia non come un sbiadito avvenimento , ma come una cosa importante, da mettere nel cuore tra le cose più importanti e ricordarlo quando la noia o  l’insoddisfazione, o la rabbia per lo scaldabagno rotto o l’orgoglio ci invaderanno e crederemo che il mondo sia tutto lì.

Ricordiamo a tal proposito cosa ha scritto Primo Levi nella prefazione del suo libro “Se questo è un uomo” tratto dalla sua esperienza nel campo di concentramento:

“Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

   Considerate se questo è un uomo

   Che lavora nel fango

   Che non conosce pace

   Che lotta per mezzo pane

   Che muore per un sì o per un no.

   Considerate se questa è una donna,

   Senza capelli e senza nome

   Senza più forza di ricordare

   Vuoti gli occhi e freddo il grembo

   Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

   O vi si sfaccia la casa,

   La malattia vi impedisca,

   I vostri nati torcano il viso da voi.”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)

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