Gli insulti alle donne, gli auguri di morte al bimbo e tutta la violenza oscena del web che odia

La cronaca quotidiana delle violenze social ci deve fare esigere leggi serie per perseguire le persone che, sui social network, istigano allo stupro e all'aggressione, insultano e inneggiano all'odio. Ma serve, prima di tutto, una nuova cultura.

Finché continueremo a credere che i social network siano un’altra cosa dalla realtà, si consumerà una guerra di cui noi saremo vittime indifese, carnefici impuniti o testimoni omertosi e colpevoli. In molti casi, non una delle tre cose ma tutte quante a turno.

Muore la nipote quarantenne di Miguel Bosé e piovono tweet di una follia inaudita su lui – Dio ti ha punito perché sei omosessuale, è il tono medio – e pure su lei, defunta. Si arriva persino al delirio in cui si inneggia al vilipendio di cadavere. Parole agghiaccianti, difficili da trascrivere, di cui abbiamo già parlato qui

La magistratura spagnola prende in mano la questione ma, di fatto, può fare poco e niente. Mancano leggi e, quelle che ci sono, sono anacronistiche e si riferiscono a un tempo in cui i social network erano il futuro. In ogni caso facilmente aggirabili da criminali neppure troppo intelligenti, tanto che qualcuno, nonostante il vuoto normativo e di tutele offerte da Facebook, Twitter e compagnia, riesce addirittura a beccarsi qualche conseguenza (pochi purtroppo).
Ma alla maggior parte non tocca neppure un po’ di strizza, figuriamoci pensare a qualcosa di più.

Federica Sciarelli, nei giorni scorsi, è tornata sull’argomento degli insulti alle donne sul web.

Questo è il video, da ascoltare, perché ha ragione lei quando dice che parole tipo queste

Lasciarle lì portarle via i vestiti e infilarle un bastone nel culo

pronunciate da lei, professionale conduttrice di Chi l’ha visto?, fanno ancora più impressione.

Ma a scrivere queste parole

Schiaffi, sputi e pisciata addosso finale a sta troia

e tutte le altre che ogni giorno inneggiano allo stupro, all’omicidio e alla morte chi è stato? Di chi sono i cagna, i troia, muori usciti da dita maschili e femminili che battono su tastiere reali una violenza reale.

Reali, non virtuali. Perché dietro a ogni parola che si trova sul web c’è una persona reale, non virtuale.
C’è una persona reale dietro le parole di questo articolo, che ne riporta la firma, e c’è anche laddove la firma non c’è e dietro la protezione codarda di account fake o di gruppi chiusi.

Chi sono le persone che, a prescindere dalla bontà o meno di una convinzione,  hanno scritto queste parole ad Adrián, otto anni, spagnolo e malato di cancro?

Augurandogli di morire perché il suo desiderio è “da grande voglio fare il torero”.
Possiamo discutere questo sogno, ma la morte, la sofferenza? A un bambino di 8 anni che avrebbe potuto dire voglio fare l’astronauta probabilmente con uguale convinzione?

Chi sono le persone – disadattati sociali, studentesse modello, padri di famiglia e fidanzati premurosi – che ogni giorno insultano personaggi pubblici e politici, augurando loro la morte?

 

Chi i sedicenti ribelli del web che alimentano gruppi di odio invocando il diritto di espressione o di satira (come se dare della troia a una donna possa essere considerata satira)?

Chi quelli che si scagliano contro Selvaggia Lucarelli che da tempo sta combattendo una battaglia contro il cyberbullismo e le shirstorm o contro il ministro Boldrini che sceglie di denunciare senza censura le volgarità ricevute e i loro autori?

Perché se è vero che ci sono tanti fake, è altrettanto vero che ci sono anche molti nomi e cognomi veri, che corrispondono esattamente alla persona che urla troia, cagna, meriti di morire al politico, al vip o alla vittima designata di turno.
Persone ritratte nella foto di profilo con i figli, la fidanzata e che all’interno della loro bacheca magari hanno condiviso la foto del cagnolino in cerca di adozione o il link della modella curvy che invita a volersi bene per come si è. Cittadini modello – o presunti tali – che vomitano la propria frustrazione e il loro vuoto culturale e lessicale su un social network.

Ipocrisia? Ignoranza? Probabilmente entrambe. Ma anche e soprattutto delinquenza e violenza, oltre ogni libertà d’espressione.
Fatto sta che non è raro assistere a chi si indigna non per la loro brutalità, ma contro chi li denuncia pubblicamente, accusando la vittima dei loro soprusi di bullizzare i carnefici e di metterli alla gogna.
Non di rado, più di una persona li giustifica in nome di un “momento di rabbia” o del fatto che sono “bravi ragazzi, schiacciati da un sistema ingiusto” che non “hanno mai fatto male a nessuno” (perché, ovviamente, dare della cagna a una donna o scrivere di come la si stuprerebbe in gruppo non è fare male finché non passi all’azione. Questo il ragionamento sottostante?).
Chiaro, viviamo un momento storico in cui se sei stato coinvolto in un processo per femminicidio e poi assolto, ti puoi permettere di scherzare sui social su come si uccide una donna e si insabbiano le prove:

Viviamo in un momento storico in cui all’indomani di stupri di gruppo i genitori difendono i pargoli perché “non avevano capito che lei non era consenziente” o, peggio, perché “è colpa sua che li ha provocati”.

Siamo in guerra. Una guerra culturale che, a quanto pare, vede l’esercito dell’ignoranza dilagare e poche milizie sparse e male organizzate a contrastarlo.

Manca la cultura della denuncia, perché mancano la cultura della tutela della vittima “senza se e senza ma” e la certezza della pena. 
Manca il senso profondo di quanto tutto questo sia pericolosamente – mortalmente, abbiamo già visto, in più casi – pericoloso. Manca, ancora una volta, il senso di responsabilità.
Perché, come scrisse Michele Serra, all’alba della vicenda del ministro Boldrini

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