Hai mai insultato qualcuno su Facebook o scritto una di queste cose? È reato. Ecco cosa rischi

Pensavi che i social fossero una sorta di porto franco dove sfogarsi a suon di insulti? Da oggi cambierai opinione. Mentre da noi i giudici della Cassazione stabiliscono che l'oltraggio sul web integra l'ipotesi di diffamazione aggravata, in Australia un venticinquenne che si era spinto troppo oltre rischia tre anni per molestie sessuali.

Spesso, sui social si leggono pesanti insulti rivolti con estrema leggerezza a personaggi famosi o utenti sconosciuti che, su qualche community hanno la colpa di non pensarla allo stesso modo di chi li attacca. D’ora in poi, però, chi confidava nella rete  come una sorta di zona franca dovrà stare molto attento: la condanna a dieci mesi che è appena stata comminata a una signora sarda è solo l’ennesima dimostrazione che le invettive sul web si possono pagare molto care, perché la legge, fortunatamente, ci tutela anche sulle piattaforme virtuali. Ma cosa rischia in sostanza chi si lascia andare ad offese e ingiurie gratuite? Per rendercene conto, ripercorriamo insieme le ultime pronunce di Tribunali e Cassazione.

 1. Patteggiamento a 10 mesi per diffamazione: la dea bendata, sui social, ci vede benissimo

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Fonte: reference.com

La notizia risale al 15 giugno scorso: una quarantunenne della provincia di Oristano, che nel 2014 aveva usato Facebook per diffamare una compaesana, ha deciso di dichiararsi colpevole, patteggiando un’esemplare condanna a 10 mesi. Oltre alla diffamazione, all’ingiuria e alle minacce, i capi di imputazione contestatole comprendevano il reato di lesioni personali, perché la donna, per sfogare la sua rabbia, non si era limitata a offendere e intimidire la rivale: dopo averla messa alla gogna sul social network più amato, con parole del tipo “Il collare va messo ai cani, tu, bella mia non sei un cane. Sarebbe un insulto per il cane” o, ancora, “la legge farà il suo corso e io sarò sulla riva del fiume ad aspettare i vostri cadaveri”, l’imputata era passata ai fatti, prendendo per i capelli la concittadina e facendole sbattere ripetutamente la testa contro il muro.
Dopo l’accaduto, la signora offesa aveva deciso di portare la sua aguzzina in tribunale, citandola per tutte le violenze subite, fisiche e verbali. Perché, come si dice, le parole feriscono più della spada e, quando intaccano l’altrui reputazione in modo plateale, anche su un social, espongono chi le pronuncia all’accusa di diffamazione. Non a caso, il Gup Elisa Marras ha ratificato l’accordo tra le parti, giudicando l’accusata colpevole di tutti i reati ascritti, salvo quello di ingiuria, nel frattempo depenalizzato. Con buona pace di chi crede che Facebook sia un luogo dove tutto è permesso.

2. La bacheca di Facebook come la prima pagina di un quotidiano: chi la usa per diffamare merita le aggravanti

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Fonte: skynews

È ufficiale: l’insulto su Facebook è diffamazione aggravata. La Suprema Corte, giudicando il caso che nel 2010 aveva coinvolto l’attuale presidente della Croce Rossa Italiana Francesco Rocca, non ha avuto dubbi. L’invettiva tutta social di cui era stato vittima mentre era commissario straordinario dell’ente doveva essere punita col massimo della pena. Infatti, le offese ricevute non solo erano lesive della reputazione del dirigente ma, a causa del medium scelto per infliggerle, potevano raggiungere un numero indeterminato di persone. Dunque, la linea dura che ha portato alla conferma della multa da 1.500 euro, emessa nei confronti di un congedato del corpo militare della Croce Rossa, non è stata determinata solo dagli epiteti con i quali lo stesso aveva apostrofato Rocca. A rendere ancora più gravi le espressioni verme, parassita e cialtrone, secondo la Cassazione, sono state le modalità dell’insulto e, in definitiva, la cassa di risonanza di una piattaforma mediante la quale gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita. Insomma, Facebook è l’agorà contemporanea e diffamare tramite Internet espone a pericoli maggiori per il carattere amplificato del messaggio: uomini (e donne) avvisati, mezzi salvati.

3. Donne alla riscossa: la molestia sessuale virtuale è un reato punibile col carcere

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Fonte: theconversation.com

Alcuni uomini, fortunatamente una minoranza, pensano ancora che le donne debbano limitare certe affermazioni, pena l’essere additate come leggere e libertine. O, almeno, questa dev’essere stata l’opinione di Zane Alchin, un australiano di 25 anni, il quale, letta la presentazione che una connazionale aveva scelto per il profilo su una dating app, ha pensato bene di insultarla pubblicamente con perle di saggezza del tipo “la cosa migliore delle femministe è che non agiscono, così quando le stupri la sensazione è 100 volte più forte”. Questo è solo uno degli oltre cinquanta post con i quali il giovane ha preso di mira la sfrontata Olivia Melville, colpevole ai suoi occhi di aver citato una canzone con espliciti riferimenti sessuali. A causa del pregiudizio, ancora molto diffuso nonostante la presunta libertà attuale, la ragazza è diventata facile bersaglio dei frequentatori di Facebook, dove un amico di Alchin aveva condiviso lo screenshot del suo profilo Tinder. Tale azione ha esposto Olivia ad un coro di insulti e minacce ma il venticinquenne, con la sua insistenza, pare proprio sia andato oltre. Chissà cosa avrà provato questo gentleman contemporaneo quando, stando alla BBC, al primo giorno del processo si è trovato costretto a dichiararsi colpevole di molestie sessuali. Sicuramente, più sollevate si saranno sentite la Melville, le esponenti del gruppo Sexual Violence Won’t Be Silenced e, verosimilmente, tutte le donne del mondo.

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